Appunti sul terremoto del 1905 nel vibonese

di

Antonio Bagnato

 

Da “Incontri mediterranei”, n. 12, dicembre 2005, Pellegrini, Cosenza.

La pubblicazione di questa drammatica ricostruzione storica è stata autorizzata dall'Autore, Prof. Antonio Bagnato.

 
 
 

Parghelia - Rovine del terremoto - 1905

 
 

     Otto settembre 1905, una catastrofe sismica sconvolse la Calabria: 557 i morti, 2615 i feriti. Alcuni paesi furono quasi totalmente rasi al suolo, tra questi Parghelia, Piscopio, Zammarò, S. Leo di Briatico, Stefanaconi, Aiello, il rione Forgiari di Monteleone, la frazione Vardesca di Martirano.

   Un giovane di Parghelia, forse “un benestante che aveva studiato o stava studiando ancora”, così descrisse a Mirna Quasimodo “la scena” del terremoto: “Erano le due ore e 45 dopo la mezzanotte, quando d’un tratto ci vedemmo svegliati da un turbine tremendo; pareva che tutto l’inferno si fosse scatenato contro le nostre povere case. […] Fuori non si vedeva più nulla tanto era fitto il polverio che saliva dalle macerie; ma questo a poco a poco diradandosi permise che l’un l’altro ci potessimo vedere in viso. Tutti eravamo in strada, chi in camicia, chi coi soli calzoni, chi avvolto in un lenzuolo e qualcuno interamente nudo, chè forse per il gran caldo era costretto a dormire in quel modo, rincantucciato cercava  coprirsi con le mani le vergogne. Si udivano intanto pianti disperati, singhiozzi e grida di pietà. […]”.

   “ In un canto una donna quasi nuda gridava disperatamente, e si era sciolta le trecce e con esse si nascondeva il seno del tutto nudo; un’altra, curva al suolo, tenendo con una mano un lumicino[…], scavava con l’altra fra un monte di macerie, donde diceva di aver sentito venir fuori la voce di sua figlia, che in realtà fu poi trovata viva, […] un’altra ancora -racconta il sopravvissuto– nel buio di un tugurio stringeva al petto il corpicino freddo d’una sua creatura, […] un povero vecchio rimasto con le gambe dentro pensolava (sic) da un muro gridando che lo si liberasse dalla morte, e morì di fatto; e così via via altri cento casi più pietosi ancor”.

Settanta furono i morti e più di cento i feriti. Racconta ancora a Quasimodo il giovane di Parghelia.  Finalmente giunse l’alba: “Seguì il sole che di mezzo a un cielo di zaffiro illuminò quell’ecatombe di martiri avvolti tra le pietre. Ancora ironia! Ma beati loro, quelli che morirono, perché non videro lo strazio che gli uomini avrebbero fatto di loro se fossero rimasti vivi”. (1)

  Rocco Cotroneo, in visita nei paesi del terremoto al seguito del cardinale Gennaro Portanova, arcivescovo di Reggio Calabria, ritiene sia impossibile descrivere “lo sgomento che prova l’animo nostro: non alito di vita in quel paese [Parghelia] già di più di 3000 abitanti. Desolazione e solitudine”. (2)

   La Calabria è stata sempre terra di alluvioni e terremoti. I più sconvolgenti furono quelli del 1638-1783-1905-1908. Ma è stata per lungo tempo anche terra marginale e poco conosciuta, a volte, raccontata attraverso il mito ed una serie di stereotipi.

   Ancora agli inizi del Novecento la regione appariva come un semplice luogo geografico, marginale, quasi sconosciuto, a tal punto che Mirna Quasimodo nel 1905 così scriveva: “ La Calabria, per chi non lo sapesse, è geograficamente e politicamente una regione d’Italia. La terra di essa è fertilissima e  gli abitanti, come dai più si crede, non sono cannibali, né esquimesi, ma uomini come sono i lombardi, i toscani e i romagnoli”. E aggiungeva che questa terra era “senza alcuna industria”, mancavano le strade, c’era “deficienza di porti”, era “infestata dalla malaria”. Eppure non mancavano coloro che possedevano grossi capitali, ma non li investivano “perché non hanno fiducia in se medesimi e li tengono nascosti, o comprano titoli, anzicchè (sic) metterli a frutto”. (3)

   Della Calabria si è sempre saputo poco. Corrado Alvaro riteneva che “La parola Calabria dice alla maggioranza cose assai vaghe, paese e gente difficile”, una regione che ancora “fa parte di una geografia romantica”. (4)

Augusto Placanica, che alla Calabria ha dedicato saggi di grande valore, ritiene che la regione sia stata rappresentata, per lungo tempo, come la terra del mito, un mito che ha sempre attraversato la storia; la terra della favola di un luogo felice e splendido che agli uomini colti parlava attraverso il mito, le rovine e la memoria della Magna Grecia; per altro verso la Calabria come luogo rupestre, duro, selvatico, abitata da gente fiera ma primitiva, a volte colpita dall’ “ira divina” mediante alluvioni, terremoti e pestilenze. (5) Ma quell’idea di Calabria, per dirla ancora con Placanica, era la “Calabria in idea”, appunto, un’invenzione che pur ha funzionato per lungo tempo.

Anche dopo l’unificazione d’Italia la Calabria rimase marginale e periferica, una regione in cui le classi dirigenti si adeguarono, di volta in volta, ai mutamenti politici e diventarono gli ascari dei vari governi.

   La regione fu scoperta, per quello che era, con le prime inchieste parlamentari, che descrivevano le drammatiche condizioni delle plebi agricole e del mondo contadino, ed un’economia feudale,  in gran parte nelle mani di possidenti assenteisti e incapaci di apportare la benché minima modernizzazione, e quando veniva sconvolta da terribili eventi naturali, come alluvioni e terremoti, per essere poi dimenticata, come se non facesse parte dell’Italia. 

   Una certa attenzione si ebbe con le leggi speciali emanate tra il 1906 e il 1908, in concomitanza con i due terremoti, che prevedevano interventi dello Stato a favore del Mezzogiorno e della Calabria, ma anche per l’attenzione dedicata a quei tragici eventi dalla grande stampa. Poi nuovamente disinteresse e disattenzione. (6) Facendo riferimento al terremoto del 1905, così scrive G. Masi: “Il mito e l’incantesimo, questa volta, si spezzano definitivamente e il disastro, con tutta la sua drammatica realtà, poneva termine ad una letteratura mitologica, che non poteva ulteriormente prosperare in uno scenario di apocalittica devastazione”. (7)

   Con i terremoti catastrofici del 1783, del 1905 e del 1908, in particolare con questi ultimi due, e per la presenza della stampa nazionale e non solo, emerge una Calabria non più “in idea”, ma nella sua concreta arretratezza e drammaticità. Un’arretratezza tale che Luigi Barzini, il 15 settembre 1905, scriveva, sul “Corriere della sera” che “Nessuna contrada europea si possa paragonare alla disgraziata Calabria”.

Lo spaventoso terremoto del febbraio 1783 aveva provocato l’attenzione e l’interesse dello Stato borbonico verso la Calabria. Ci furono studi, proposte ed interventi interessanti, tra questi l’istituzione della Cassa sacra, anche se poi non furono correttamente gestiti e la Cassa, in gran parte, fallì. Il terremoto provocò danni di dimensioni impressionanti, “annientò la vita e l’economia della Calabria Ulteriore, soprattutto nella sua parte meridionale”. (8) Trentamila furono i morti, secondo il calcolo del Vicario del re Francesco Pignatelli. Si pensi che in quel periodo la città di Catanzaro contava novemila abitanti. Il re di Napoli, Ferdinando IV, informato della tragedia provocata dal terremoto, decise di inviare in Calabria Francesco Pignatelli, principe di Strongoli, in qualità di Vicario generale, con “autorità e facoltà ut alter ego”. Giunto in Calabria, il principe Pignatelli constatò la grave situazione in cui versava quella provincia del regno, derivante non solo dal terremoto, ma principalmente “dal disordine e dall’abbandono in cui per secoli si era trovata”.

   Nobili e borghesi badavano soltanto a difendere i loro egoisti interessi. Un ufficiale al seguito di Pignatelli, il 7 marzo del 1783, scriveva che “ ‘cappelli’ e ‘galantuomini’ sono i tiranni dei villani e faticatori della campagna”. (9) E il 31 marzo, dopo avere visitato le zone colpite dal terremoto, sottolineava che in molti luoghi era “rimasto scandalizzato dalla poca premura che mostrano i baroni per i loro sudditi. Da ciò forse nasce che questi hanno poco amore per i padroni contro i quali sono con qualche ragione adirati”. (10)

   Il terremoto si inseriva in un contesto regionale in cui la maggior parte della popolazione, da secoli, viveva in condizioni disperate, rendendo ancora più tragica la vita a coloro che erano sopravvissuti. Ferdinando Galiani, che visitò la Calabria in questo periodo, e scrisse tre Memorie che inviò al re in forma di pareri e di proposte, così si esprimeva: “La calamità della Calabria è stata tale, e tanto distruttiva, che offre il campo, a poter spaziosamente formare un nuovo sistema di cose rispetto ad essa. Bisogna dunque profittare del momento per formare un piano generale del suo risanamento da eseguire di passo in passo”. E aggiungeva che “tre sono i mali grandi della Calabria Ulteriore. 1) La prepotenza dei baroni; 2) la soverchia ricchezza nelle mani morte; 3) la sporchezza, la miseria, la selvastichezza, la ferocia di quelle città e di quei popoli”. (11)

La liberazione delle terre dalle mani morte e dai pesi della feudalità avrebbe permesso, secondo lo studioso napoletano, la formazione di una classe borghese con buone capacità imprenditoriali ed avrebbe messo “in straordinario moto ed attività la circolazione del denaro in quel paese”. Ma Galiani temeva che i baroni della Calabria avrebbero potuto approfittare della catastrofe provocata dal terremoto per fare incetta di terra e di denaro.

    Così annotava: “E’ da aversi riguardo che persone ricche, quali sono i baroni delle Calabrie, potrebbero profittare dell’attuale ruina de’ luoghi per ingrandirsi comprando a vilissimo prezzo i terreni e le case distrutte e facendo censi perpetui”. (12) Quanto previsto da F. Galiani si verificò puntualmente.

   La Cassa sacra, istituita con regio decreto del 4 giungo 1784, si proponeva di incamerare i beni della chiesa cattolica della Calabria Ulteriore per destinare il ricavato “in beneficio e vantaggio della desolata provincia”. Un provvedimento importante sul piano teorico perché il disegno in essa contenuto era, in qualche modo, “eversivo”, ma non modificò l’assetto monopolistico e immobilistico del possesso terriero, né le condizioni di estrema povertà in cui versava la plebe agricola calabrese, per l’uso distorto che se ne fece.

    I problemi, qui appena accennati, si presentarono con caratteristiche simili a distanza di più di duecento anni, prima e dopo il sisma del 1905, nonostante le inchieste promosse dallo Stato, le leggi speciali e il contributo della stampa che non si limitò a “raccontare” il terremoto, ma denunciò anche i mali che affliggevano quella terra dell’estremo lembo d’Italia e indicò, a volte, le possibili soluzioni.

La tragedia provocata dal sisma del 1905 spinse i più grandi giornali italiani ad essere presenti in Calabria, con i loro migliori inviati; tra questi, il “Corriere della sera”, “La tribuna”, “Avanti!”, “Il Mattino”, il “Roma”, il “Giornale d’Italia”, “Il Resto del Carlino”, il “Il Secolo XIX”, “La Nazione”. Era presente anche la stampa periodica che con le sue illustrazioni rese “visibile” il terremoto nel resto d’Italia. Queste alcune delle testate: “La Domenica del corriere”, “Illustrazione Italiana”, “La Tribuna illustrata”, “Il Mattino illustrato”.

   Così la rappresentazione della regione fuoriesce dagli stereotipi e dal mito, vengono raccontati il terremoto, ma anche la Calabria così com’è, con la sua arretratezza, la sua povertà, l’inettitudine e l’arroganza di gran parte della classe dirigente, intenta, tranne rare eccezioni, a conservare e difendere i propri interessi e privilegi. Ma i giornalisti sottolineano anche le possibilità e le potenzialità di sviluppo della regione.

    Mentre il terremoto colpiva la Calabria, alla Camera si discuteva sull’opportunità di una legislazione speciale per il Mezzogiorno e per la Calabria. In seguito al sisma, i provvedimenti speciali, già previsti per la Basilicata, furono estesi anche alla Calabria. Se è vero che furono proposti interventi importanti, è anche vero che, nella storia d’Italia, non fu promossa mai una seria politica meridionalista, tale da fare uscire la Calabria ed il Mezzogiorno intero dalla condizione di subalternità ed emarginazione rispetto al resto d’Italia e dell’Europa. Ciò non solo per responsabilità dello Stato centrale, ma anche per la miopia, l’egoismo, gli interessi e, perché no, il disinteresse delle classi dirigenti meridionali.

   Ma la questione meridionale era ed è una questione nazionale. Solo se intesa in quest’ottica, forse sarà possibile, un giorno, una soluzione.

   Il terremoto dell’otto settembre 1905 coinvolse più direttamente i circondari di Monteleone e di Nicastro, ma con minore intensità anche parte della provincia di Reggio Calabria e di Cosenza. I Comuni gravemente danneggiati furono 326; 753 i centri abitati (135 nel catanzarese, 107 nel Cosentino, 84 nel Reggino. (13) La situazione apparve subito drammatica.

   Olindo Malagodi, inviato de “La tribuna”, in una corrispondenza da Monteleone, del 13 settembre 1905, dopo aver visitato Mileto, San Costantino, Triparni e altri piccoli paesi, scriveva: “ Ritorno ora da una seconda gita in questa maledetta via della desolazione. Di visita in visita, di ispezione in ispezione, l’immanità del disastro va sempre più giganteggiando davanti agli occhi della mente; la realtà si mostra infinitamente più tragica di qualunque immaginazione”

   Malagodi, che era arrivato in Calabria il 12 settembre, descrive giorno dopo giorno ciò che vede, ciò che sente. Non si limita alla pura rappresentazione della realtà. Cerca di capire, di interpretare anche le concezioni del mondo e della vita delle popolazioni calabre, la composizione sociale e di classe. Descrive una Calabria “sull’orlo dell’abisso” e il terremoto che la fa precipitare verso il fondo. Ma indica anche la possibilità di salvarla finché si è in tempo.

   La regione può salvarsi, può riscattarsi e il terremoto può, addirittura, essere un’occasione, perché, se è vero che l’ha precipitata verso “una vita primitiva, barbarica”, piena di miseria, è anche vero che, partendo da quelle condizioni, sia possibile, anzi necessario, “preparare il terreno ad una nuova Calabria fiorente e più civile”. Ma questa rinascita non bisogna aspettarsela dall’esterno. La nuova Calabria “ fiorente e civile” deve essere costruita dagli stessi calabresi. (14)

   Non sarà così. La Calabria non ebbe la forza e la capacità per rinascere da sola dopo il terremoto. Le classi dominanti nazionali e locali non intesero percorrere la strada indicata da O. Malagodi, e da tanti meridionalisti.

   Il 12 settembre il re Vittorio Emanuele III giunse in Calabria, accompagnato dal ministro Ferraris. La realtà era drammatica, egli appariva commosso di fronte all’entità del disastro. Folle di persone gridavano “viva il re”, gruppi di donne piangenti si inginocchiavano di fronte al sovrano. Il re prese atto del disastro, ma si rendeva conto che le costruzioni erano molto fragili. A S. Onofrio, mentre visitava il paese in gran parte distrutto, rivolto al ministro Ferraris disse: “ Erano casupole che non potevano resistere a tanto urto, ma è orribile”. Le case della povera gente erano ,per lo più, costruite con fango impastato con paglia, “breste”.

   Il dramma assunse una dimensione più intensa nelle invocazioni del popolo al re. Sempre a S. Onofrio, alcune donne così si rivolgevano al sovrano: “ Maestà, perdemmo tutto; non abbiamo più case, non abbiamo robe, non parenti. Voi solo restate e Dio: aiutateci voi!”

   Un’invocazione che sa dell’abbandono in cui erano precipitate queste persone, ma anche della perdita della speranza. Solo Dio e il re potevano dare una mano per risollevare questo popolo sofferente e miserabile. Ma Dio era lontano, oltre il mondo; forse il re, che si era degnato di visitare questa terra martoriata, avrebbe potuto fare qualcosa.

   Non c’è fiducia nelle classi dirigenti locali. Luigi Barzini, sul “Corriere della sera” del 20 settembre del 1905, così scrive: “Questa gente non crede più ai suoi capi, ai suoi signori, ai suoi padroni e si getta, piena di speranza, verso gli estranei che arrivano, con la foga di chi cerca una liberazione; trova parole che scendono al cuore, le quali rivelano quelle profonde sofferenze, inaudite, infinitamente antiche, che il terremoto ha scosso, facendone cadere in un minuto i terribili frutti. Noi abbiamo potuto facilmente constatare che il terremoto ha portato così vasto danno e tanto strazio precisamente perché le condizioni del paese erano sciagurate”.

   Il re, durante tutta la sua visita in Calabria (12- 15 settembre), si mostrò interessato a quanto era accaduto, lo si vide commosso, paterno, cordiale, raccomandò di costruire al più presto baracche per dare alloggi alle popolazioni. C’era sensibilità del monarca verso le popolazioni di Calabria. Ma dopo la sua partenza, tutto tornò come prima. (15) A Zungri il re venne accolto con entusiasmo e fiducia, gli abitanti si scusarono per la pessima condizione delle strade, sulle quali l’automobile del re trovava difficoltà ad avanzare, e si misero subito a lavoro per sistemarle. Ma accusavano l’amministrazione comunale di incapacità e di imbrogli. In questa cittadina del Poro c’era anche un qualche dialogo tra la popolazione ed il re, il quale parlava al popolo intercalando qualche parola in dialetto napoletano. L’”Avanti!” in una corrispondenza del 15 settembre, riferisce che un gruppo di persone più volte si rivolse al re così:  “Maestà vedete come sono amministrate le vostre tasse: qua i signori del municipio si mangiano tutto, anche i denari della carità nazionale”.

Vittorio  Emanuele continuava la sua visita in gran parte dei paesi colpiti dal terremoto; tra questi Triparti, Pizzo, Parghelia.

   L’inviato del “Corriere della sera” Luigi Barzini, il 12 settembre, dopo aver visitato alcuni dei paesi colpiti dal sisma e fattosi un quadro abbastanza chiaro del disastro, scrive: “Qui intorno si muore di fame e di sete: i soccorsi, per quanto alacremente portati, non bastano; manca il pane ai sani, la carne ai feriti, manca l’acqua, manca il ricovero ai morenti. Intorno ai paesi una lugubre folla dolente si accascia; vi sono ventimila persone che perdono tutto,che non hanno neppure i recipienti per andare alle fonti per attingervi; sono silenziose moltitudini che non possono staccarsi dalle rovine delle loro case, dove i cari morirono e che, stordite, aspettano senza forza quegli aiuti che non arrivano mai”.

   Era una condizione disperata, quella delle popolazioni colpite dal terremoto e sembrava non ci fosse alcuna via d’uscita. Non per caso la religione, e più specificamente i santi, appaiono come un punto di riferimento per una possibile speranza. Da qui una sorta di crisi della ragione, incapace di dare risposte al dramma della povera gente.

 Si potrebbe dire, con Luigi Lombardi Satriani, che la catastrofe del terremoto avesse prodotto “ la catastrofe della ragione” e, quindi, la ricerca del divino come possibile risposta a ciò che la ragione non sa rispondere.

   Lo stesso Augusto Placanica, nel suo interessante Il filosofo e la catastrofe, mette in evidenza come terremoti ed eventi tragici naturali producano profonda crisi della razionalità, per cui la condizione esistenziale appare insopportabile e senza soluzioni. Da qui il ricorso all’irrazionale e alla religione per cercare possibili risposte che non si aspettano dalle classi dirigenti, né da se stessi, ma dai santi, per lo più.

   Tutte le testimonianze relative al terremoto indicano che dovunque si cercano le immagini e le statue dei santi, anche tra le rovine delle chiese. Le statue vengono disseppellite e sistemate in vari luoghi per essere adorate e pregate. Si improvvisano altari all’aperto, si celebrano messe, si spera nei santi e nelle loro grazie.

   A Zammarò, uno dei paesi del vibonese, che contava 400 abitanti, ottanta furono i morti e 250 i feriti. Così scrive su “La tribuna” del 12 settembre Olindo Malagodi: “ La prima cosa che incontrai all’entrata del paese fu un altare improvvisato. I pochissimi superstiti, presi da un sentimento superstizioso, dimenticando le tremende sciagure, hanno disseppellito dalla chiesa ruinata le statue di legno variopinto dei vari patroni ed hanno formato loro un altare improvvisato”. (16) Le statue dei santi, infatti, disseppellite quasi intatte, da sotto le macerie della chiesa di Zammarò, facevano gridare al miracolo ai sopravvissuti di quel paese martoriato, che avevano fiducia nei santi più che negli uomini.

   L’antropologo Vito Teti, nel corso delle sue numerose ed importanti ricerche , ha “raccolto”, un canto “recitato” da Filippina Natale, che fa riferimento al terremoto del 1905, che colpì anche S. Gregorio d’Ippona ed in particolare la frazione di Zammarò. Filippina Natale nasce nel 1920, ma ricorda il canto perché le veniva “raccontato” dalla madre e non lo dimenticò mai, anzi lo trasmise agli altri perché non dimenticassero quel tragico evento che, secondo V. Teti, “assurge a una sorta di tempo mitico, […] che separa il prima dal dopo”. Un canto per non dimenticare, dunque, con uno sfondo religioso. La religione è un elemento fondante per le popolazioni meridionali, con una doppia valenza: accettazione delle condizioni di vita così come sono, perché immutabili, prestabilite; per altro verso, speranza in un possibile riscatto solo ad opera di forze divine. Alienazione e speranza, potremmo dire.

Ecco il canto raccolto da Vito Teti: “All’otto di  settembre già sapiti/ Vinni lu rugurusu terremoto./ E cu’ è rimastu mortu e cu’ feritu/ E cui sutti alli muri su’ atterrati:// Li Chjiesi tutti a terra su caduti/ Li missi si celebranu alli strati/ Unu de chiji di’ divinni a restari/ Chiju chi teni a mani lu Signuri”. (L’otto settembre già sapete/ Venne il rovinoso, il rumoroso, terremoto/ E chi è rimasto morto e chi ferito/ E chi sotto ai muri sono sotterrati//. Le Chiese tutte a terra sono cadute/ Le messe si celebrano nelle strade/ Uno di quelli là è riuscito a sopravvivere/ Quello che ha tenuto per mano il Signore”.) (17) La preoccupazione dei sopravvissuti era di dare sepoltura ai morti e di costruire un qualche rifugio prima della stagione invernale, ma nello stesso tempo si preoccupavano di proteggere e mettere in salvo le statue dei santi.

    In “L’Avvenire di Cosenza” dell’undici settembre 2005, Luigi Vocaturo racconta che ad Aiello la folla, subito dopo il terremoto, entrò nella Chiesa pericolante, tirò fuori dalle nicchie i santi, li decorò con ceri accesi e li portò in piazza: “ Tutti caddero in ginocchio e piangendo disperatamente e percotendosi il petto con ambedue le pugna, e con tale forza da parere che la terra tremasse come una nova ripresa di terremoto, imploravano aiuto”. Questi fenomeni, anche se con diverse modalità, si verificavano in gran parte dei paesi terremotati. Volevano essere riti propiziatori e di ringraziamento alla Madonna e ai santi per aver protetto la loro comunità, per lo meno in parte, molto in parte.

   La maggioranza degli osservatori dell’epoca interpretò questi comportamenti popolari, che il terremoto alimentava, come il risultato di paure ed angosce, frutto di una mentalità primitiva, arcaica e superstiziosa. Ma questa è una lettura superficiale e limitata.

   A parere di Vito Teti “In realtà nelle società meridionali i luoghi erano sacri, la fondazione e l’organizzazione dei luoghi avveniva secondo modalità culturali  e sacrali, i paesi erano affidati e consegnati ai santi e alle Madonne. Il santo patrono proteggeva dalla catastrofe, ne attenuava gli effetti, accompagnava nel “cordoglio” e nel “lutto” della comunità e anche nella rifondazione e nella ricostruzione”. (18) Non si tratta tanto di superstizione, quanto piuttosto di ricerca del senso dei luoghi, che è contemporaneamente umano e divino, ma anche della ricerca del senso della vita e di una protezione che sembra che gli umani non siano in grado di dare.

   I terremoti, poi, danno il senso profondo della precarietà, dello smarrimento e della fragilità umana. D’altronde, non si tratta solo di un “misterioso sommovimento tellurico” e di una mostruosa accumulazione di rovine.

 “Il terremoto come fatto umano, è questa tragedia di persone, di intere famiglie, di vecchi, donne e bambini cacciati violentemente, d’improvviso dalle loro case, dalle case che sono il nido di tutti i nostri ricordi, dei nostri amori, dei nostri dolori […] cacciati via, come se noi non fossimo più i padroni […, è la tragedia di una intera popolazione, che si trova di un tratto respinta quasi verso la vita primitiva”. (19) La catastrofe del terremoto provoca spaesamento, smarrimento della ragione, esistenziale anche, ma pure e più drammaticamente determina condizioni miserabili di vita per gran parte del popolo.

   Nel già citato articolo sul “Corriere della sera” del 12 settembre 1905, Barzini descrive Piscopio, nel vibonese, come un paese raso al suolo. Su circa 1000 abitanti 59 sono morti. I sopravvissuti erano disperati morti di fame, mancava il pane o era del tutto insufficiente, mezzo  chilo per sette persone. Tanti gli “uomini gagliardi, sfiniti dagli stenti”. Una donna prese per mano il giornalista per attirare la sua attenzione sui suoi bambini sparuti e macilenti e disse: “i miei figli eccoli qui. Muoiono”.

   “ Tra tutta questa gente – sostiene ancora Barzini – vi sono i rassegnati e sono tanti e tanti. Seduti ai lati delle strade, non guardano, non parlano, non si muovono, impietriti, curvi sotto il peso della sventura. Pallidi, alcuni con il viso nascosto tra le mani, aspettano”. Queste scene che indicano sofferenza, disperazione e ingiustizia si trovano quasi dovunque. “A Zammarò distrutta, a Parghelia distrutta, a San Costantino distrutto”.

   E’ stato un tremendo pellegrinaggio tra i paesi colpiti dal terremoto, quello del giornalista milanese. Un pellegrinaggio “ il cui ricordo mi tormenta, mi affanna ancora, perché in questo male di dimenticati nostri fratelli – male che non è causato solo dalla violenza omicida d’un cataclisma, ma da cause antiche e note – in questo male mi pare di avere come italiano una parte misteriosa, indefinibile di responsabilità, quella di non avere mai pensato, come nessuno ha pensato, a questa fiera, generosa gente della mia patria, che anche senza terremoto ha sofferto e soffre”.

   Olindo Malagodi, dopo aver visitato Cessaniti, Favelloni, Sciconi, Pannaconi, Conidoni ed altri paesi del distretto di Monteleone, in gran parte distrutti, scrive che non va a vedere il terremoto; “vado a vedere dei disgraziati, vado a vedere cosa si fa di loro”. Il 19 settembre 1905 visita i paesi del litorale da Pizzo a Tropea e gli “orrori di Parghelia”, che è un paese quasi del tutto distrutto.                   “Fra tutti i paesi che ho veduti – scrive in una corrispondenza per “La tribuna” da Tropea del 19 settembre – è quello che impressiona di più, non solo pel disastro del passato, ma anche per il  pericolo del presente. Quasi tutte le case sono sospese in aria, e quantunque alcune delle più pericolose siano state demolite, ve ne sono parecchie sotto le quali si preferisce di passare in fretta tanto più che l’altezza degli edifici e l’angustia delle strade aumenta l’impressione”. Il caso di Parghelia rappresenta una delle “scene più raccapriccianti di questo immane dramma di disastro e di sventura”. (20)

E’ una “città dell’orrore, che dovrà scomparire”, il “fu paese”. Parghelia “ è una delle più dolorose tappe in questa via del pianto”.

   In questa “ città dell’orrore” solo il vicesindaco, un vecchietto curvo di nome Onofrio Salamò, si dava da fare, portava soccorso alla popolazione, organizzava un Comitato di soccorso, ma i fondi a disposizione erano molto limitati. Ufficiali, soldati e popolo dicevano di lui molto bene. Non si notavano gli altri amministratori. Sembrano scomparsi.

   Nella fase della “ ricostruzione provvisoria” delle baracche, a Parghelia, si verificarono ritardi, imbrogli, speculazioni, ladroneggi. Ciò, nonostante le sollecitazioni e le raccomandazioni del re.

   Scrive Mirna Qusimodo nel già citato Terremoto e soccorsi: “ Venne […] intanto il legname e si cominciò a far baracche. E qui tralascio di parlare della camorra, degli incettatori, degli appalti, dei padroneggi e di tutte le porcherie che si commisero, prima perché non la finirei più”, e poi perché qualche mio lettore di stomaco un po' delicato potrebbe rovinarselo forse del tutto. A me poi preme massimamente di far vedere come si andò in soccorso di questi poveri danneggiati, e quindi in che modo si costruirono le baracche, e quel che quivi giunse di tanta roba”. (21) Una baracca, di solito, consisteva in un rettangolo di circa 70 mq. di terreno diviso in 4/5 piccole stanze, senza pavimento di legno, senza zinco, senza cartoni impermeabili e senza cunette di scolo intorno. Vi abitano, in media, 7/8 persone. Non esisteva un luogo per il bagno.

   Si speculò anche sugli indumenti raccolti in tutta Italia per i terremotati. I migliori furono rubati e alle popolazioni terremotate furono distribuiti quelli mal ridotti. Eppure ci fu solidarietà e partecipazione di gran parte delle popolazioni d’Italia e i Calabresi furono grati, nonostante “ i magnanimi ladri d’Italia” avessero commesso il peggiore dei delitti.

   I tanti Comitati di solidarietà ed intervento formatisi in varie parti della nazione ebbero un ruolo importante nella fase della “prima ricostruzione”. Il Comitato milanese di soccorso per i danneggiamenti del terremoto in Calabria fu determinante nella costruzione di alcune baracche e non solo. Al Comitato della città lombarda “fu assegnato Parghelia, un paese di milletrecento abitanti in riva al Tirreno, e che dal terremoto era stato completamente distrutto; e in subordine ci si consigliò di provvedere, qualora avessimo creduto possibile ed opportuno di farlo, ad Amantea e a San Pietro d’Amantea in provincia di Cosenza. Al Comitato Bolognese fu assegnata Drapia; a quello Piemontese Briatico e Cessaniti; a quello di Genova la zona fra Porto Salvo e Porto Santa Venere”. (22) A Parghelia, il comitato milanese costruì prima un ospedale con dieci letti per la cura dei feriti, poi 40 baracche, senza imbrogli e senza camorra.

Le opere dei vari Comitati e i benefici prodotti restarono indelebili nella memoria dei sopravvissuti del terremoto, mentre lo Stato appariva estraneo e lontano. Il Comitato milanese sentiva come un dovere morale l’intervento in Calabria, in questa fase tragica, ma lo considerava anche come l’inizio di un processo politico e sociale che avrebbe potuto sollevare le sorti della povera gente, portare alla risoluzione della questione meridionale e  a superare, così, la profonda differenza tra alcune regioni d’Italia. Scriveva Cesare Nava, nella relazione del Comitato milanese relativa ai soccorsi ai danneggiamenti del terremoto in Calabria, che poiché  il grande lutto che colpì la Calabria aveva attirato l’attenzione di tutta l’Italia, “ è dovere sacrosanto di ognuno che nutre amore di patria, di adoperarsi perché il velo dell’oblio non si stenda nuovamente sui dolori e sulle piaghe della povera Calabria”. (23)

   E’ tangibile la sensibilità verso la Calabria del Comitato milanese, che non si limitò solo ad un intervento economico, ma pose il problema della solidarietà e del superamento delle condizioni di estrema povertà ed emarginazione di gran parte del popolo calabrese.

   “Spetta a Milano, città piena di energia, d’intelligenza e di denaro, mettersi alla testa di un forte e serio movimento pro-Calabria. Solo quando noi vedremo [lo sviluppo] […] solo allora Milano, come Italia tutta, potrà dire di avere esaurito per rispetto alla Calabria il proprio campito e di avere cancellata la vergogna dei giorni passasti”. (24) Ma il governo fece molto poco, così come le amministrazioni locali. Non vide le “baracche furto”, non provvide alla sicurezza, non si preoccupò di inviare in tempi brevi gli aiuti necessari. Di fronte al disastro non si ritenne opportuno convocare d’urgenza le Camere, non fu posta al centro la questione Calabria e più in generale la questione meridionale. Non si interessarono adeguatamente i parlamentari calabresi, che si lasciarono sfuggire un’occasione importante per porre con forza la questione del Mezzogiorno, anche se furono fatte delle leggi a favore del Meridione e della Calabria.

   Non seppero e non vollero perché stavano loro a cuore solo gli interessi delle classi dominanti. L’ascarismo politico dei deputati meridionali durante l’età giolittiana insegna. Il governo italiano, invece, investiva negli armamenti e nella politica coloniale, sembrava che la rinascita della Calabria e del Mezzogiorno non l’interessasse.

    “ La catastrofe sismica – sostiene Francesco Pugliese– mise inesorabilmente a nudo le miserie di una classe dirigente locale, costituita da nobiltà terriera parassitaria e da una borghesia professionale “paesana” e provinciale”. (25) Quasi tutta la grande stampa mise in evidenza l’impreparazione assoluta, l’indifferenza, la lentezza, la confusione nell’opera di soccorso del governo guidato dall’onorevole Fortis e della quasi totalità della classe dirigente locale. La rivista fiorentina “La rassegna nazionale” del 30 settembre del 1905 sottolinea i limiti dell’intervento del governo per il terremoto in Calabria e sostiene che questa regione dell’estremo Sud del paese, per lungo tempo dimenticata, tranne che da pochi attenti studiosi, pone il problema dell’unità reale della nazione perché “ se l’Italia è compiuta politicamente, essa è ben lungi dall’esserlo moralmente. L’elevazione del popolo alla dignità di popolo libero è ancora per gran parte di quelle popolazioni una vana parola; la libertà politica recataci dal nuovo assetto della nazione è andata quasi esclusivamente a vantaggio di una parte ristretta di persone, la quale se ne è avvalsa per afferrare e sfruttare il potere”.

    Il popolo è stato sempre, nella storia, sottomesso e sfruttato dalle diverse classi dominanti; i mutamenti politici, che pure ci sono stati, hanno, spesso, significato solo cambiar padrone. Il popolo, abbrutito da tanti anni di sottomissione, è rimasto servo “ delle camarille locali, le quali vengono tollerate e spesso protette dall’autorità governativa che di esse à bisogno al momento delle elezioni”. (26) Se queste erano le condizioni in cui viveva il popolo, anche nei momenti della sventura, come nel caso del terremoto,esso  non poteva  “sperare nell’aiuto del governo, che era abituato a considerare come un nemico, come un protettore dei suoi oppressori, non poteva avere fiducia nelle autorità locali, che aveva visto, nel più dei casi, sfruttare il potere a proprio esclusivo vantaggio”. (27)

   L’assenteismo, l’egoismo, l’incapacità delle classi dominanti  calabresi e l’indifferenza dello Stato centrale sono descritti con efficacia nella già citata Relazione del Comitato milanese di soccorso per i danneggiamenti del terremoto, stilata da Cesare Nava. Egli scrive di una Calabria distrutta dal terremoto, ma che, a suo avviso, è “ un nulla” a confronto dei danni provocati “dall’opera imprevidente e cieca dei governi, l’esosa cupidigia dei pochi esosi grossi proprietari e l’ignavia di una borghesia senza ideali e senza volontà, sono venute accumulando nel lungo corso di molti anni in Calabria: rovine economiche e morali”. E aggiunge: “Il ricordo più forte e più doloroso che io porto nell’anima, dalla mia visita laggiù, non mi è dato dalla desolazione causata dal terremoto in quelle belle contrade; ma dal contrasto tra la esuberante ricchezza della natura e la miseria del lavoratore; […] in una regione ricca d’acqua e di sole, è costretto onde potersi sfamare, di emigrare nella lontana America”.

   C’è la preoccupazione che, superata la fase critica del terremoto, diminuita o scomparsa l’attenzione della grande stampa, allontanatisi i rappresentanti dei vari Comitati di soccorso, tutto torni come prima o peggio di prima, sotto il dominio dei ceti latifondisti e di una borghesia apatica e provinciale che, ancora, pretendeva di vivere more nobilium. Una borghesia incapace di trasformarsi in classe dirigente e imprenditoriale, tentando nuove vie per produrre ricchezza, in qualche modo anche sociale. Invece “ si riduce a vivacchiare stentatamente nell’ozio, premendo denari, che sanno di sangue, dai pochi terreni e dalle poche casupole che possiede e facendo fruttare, con una usura che a noi sembra fantastica, il cento per cento ed anche di più i capitali che le sono rimasti”. (28) Piccoli proprietari e borghesi si credevano tutti nobili. “ Voi spesso rimanete sorpresi a sentirveli presentare col titolo di conti, baroni, nobili”. (29) L’abbondanza di professionisti e in particolare di avvocati, contrasta con l’assenza quasi totale di forze “ creatrici e produttrici”. Da qui un’agricoltura arretrata e semifeudale, con grandi e piccoli proprietari che pretendono di vivere di rendita.

   La condizione dei contadini della Calabria appare triste sia dal punto di vista economico e ambientale che persino fisico, della persona che dopo una vigorosa giovinezza si avvia verso una rapida decadenza. “ La deturpazione fisica che si osserva nel contadino calabrese invecchiato, in questi uomini, in queste donne rugosi, stecchiti, piegati, contorti, che fanno pensare agli alberi che vivono sul terreno povero ed arido è solo una conseguenza di una vita di stenti e di duro lavoro”. (30)

   Queste condizioni, peggiorate dal terremoto, spinsero coloro che erano in grado di pagarsi il viaggio ad emigrare in terre lontane, in particolare Stati uniti e Argentina. Dopo il terremoto ci fu un forte aumento dell’emigrazione dalla Calabria. Alcuni di coloro che emigrarono riuscirono a guadagnare qualche soldo attraverso un duro lavoro, ritornarono, comprarono della terra e si dimostrarono ottimi coltivatori, portando anche importanti innovazioni in campo agricolo.

   Ma l’emigrazione non fu una scelta, piuttosto una costrizione determinata dalle miserabili condizioni in cui erano costretti a vivere. Gli emigrati andavano alla ricerca di un “ricovero e di pane nelle lontane Americhe, poiché è certo miglior cosa andar quivi a lustrar  scarpe agli inglesi, anziché (sic) morire di fame, o viver abbandonati sotto il bellissimo cielo d’Italia”. Questo scrive M. Quasimodo, e aggiunge sconsolato: “ E così il governo d’Italia un po’ alla volta si toglierà di dosso quella regione di zotici e di babbuini, che oggi gli dà tanta noia, e potrà avere agio di badare con più interesse alla simpaticissima nostra Eritrea, che vale tanto sangue quanto pesa! Se poi ha questa felice idea che metta almeno a disposizione dei partenti un qualsiasi legno, perché quei poveretti non abbiano a ricorrere per il viaggio agli strozzini, che sono la più straziante piaga di quelle terre”. (31)

   E’ evidente la polemica contro la politica coloniale del governo e l’incapacità  o non volontà di risolvere i gravi problemi che riguardavano la Calabria e il Meridione.

     La Calabria non è una regione naturalmente povera, la povertà non è conseguenza di una natura avida, “ ma di una tradizionale ignoranza e inerzia dell’uomo, dell’incapacità […] della scarsissima opportunità che hanno avuto finora la grande maggioranza degli uomini che vi vivono da secoli, di sfruttare le ricchezze naturali”. (32) Ma questa “ incapacità “ è il prodotto storico del predominio, dell’arroganza, dell’incompetenza delle vecchie classi dominanti.

  La classe dirigente calabrese, tranne rare eccezioni, appare ai diversi osservatori, priva di immaginazione, egoista. Ed è ancora più triste, nella drammatica situazione provocata dal terremoto, vedere “la solitudine in cui questi pochi ricchissimi calabresi si trovano nei loro immensi palazzi, sicuri e intatti, in mezzo ad una popolazione che il terremoto ha cacciato dalle case, è del resto un simbolo preciso della loro situazione morale e materiale nella loro società”. (33) C’è un’abissale differenza tra le classi sociali in Calabria. Qui la grande ricchezza s’innalza su dei “pinnacoli altissimi”, sotto c’è una “monotona pianura di bassa mediocrità e di vaste bassure di miseria”. (34) Non c’è equità nella distribuzione della ricchezza, né mobilità, “non c’è la naturale elevazione della povertà al benessere, all’agiatezza, alla ricchezza, alla regalità economica; c’è il basso e la cima, e nient’altro, con poche eccezioni. E questa ricchezza solitaria, che non è nata dalla ricchezza generale del paese, ma dalla sua miseria; questa ricchezza che ha spesso oscure e cupe origini: l’usura, il brigantaggio tra finanziario e politico, o imprese commerciali che appaiono saccheggi, questa ricchezza che è nata dal male, ne porta l’eredità nel suo carattere; nata da un egoismo quasi inumano di cacciatori d’oro, rimane, come per condanna fatale, egoisticamente isolata in mezzo a tanto pianto, a tanto disastro della società in cui pur è nata, in cui pur ha radice”. (35)

I signori, i ricchi di Calabria appaiono come “ molecole egoistiche della società”, disinteressati al bene collettivo. Di fronte all’immane disastro del terremoto, “quasi isolati in mezzo alla commozione e alla pietà universale, essi che erano del luogo, avevano chiuso la borsa, avevano dato qualcosa amaramente, solo in seguito a pubbliche istigazioni e rampogne”. (36)

    Gli stessi rappresentanti dello Stato mostrarono, in gran parte, indifferenza e incapacità, non seppero fare di questo momento il punto di forza per la rinascita della Calabria e del Meridione, né s’impegnarono per attenuare le profonde differenze di classe e l’estrema povertà delle plebi agricole. “ Sarebbe una cosa buona e prudente – sostiene ancora Malagodi – per il paese se la grande ricchezza si sciogliesse un po’ dal suo torpore egoistico, si facesse più sociale”. Non fu così.

   Antonino Anile, in una lettera-editoriale pubblicata su “Il giornale d’Italia” del 13 settembre 1905, dopo avere sottolineato la lontananza dello Stato dalla Calabria e che prefetti e sottoprefetti, giunti nella regione, non si erano mai preoccupati di conoscere tutti i paesi che dipendevano dalla loro amministrazione, ma piuttosto a mantenere le condizioni elettorali favorevoli al candidato di governo, scriveva che gli ostacoli veri “per cui il Mezzogiorno non si solleva […] sono tutti nelle amministrazioni locali, che, in massima parte, sono focolai di pervertimento all’ombra protettrice del governo, che si preoccupa soltanto di tenere a sé legata la deputazione meridionale”. Chiedeva, Anile, che ci fosse una sorta di tregua politica, che tutti s’impegnassero per sollevare le tristi sorti della Calabria: “ Ma io scrivo principalmente […] perché il denaro che si va raccogliendo non vada, come nel 1894, disperso e non serva per coloro che in questi giorni si mettono ai fianchi delle autorità o dei deputati locali. La stampa onesta vigili e chiegga conto di ogni somma anche lieve […]. E termino con l’augurio che le promesse fatte dal ministro delle finanze, mentre ancora dura l’impressione di terrore per l’immane disastro, siano mantenute”. Non fu così, non sarà così. (37)

 Anche il terremoto fu un’occasione perché i più ricchi e i più furbi si arricchissero ulteriormente e i poveri restassero sempre più poveri ed emarginati. Non solo allora.

                                                                                                                                                       Antonio Bagnato

 

 

NOTE

1)       M. Quasimodo, Terremoto e soccorsi in Calabria., (Breve relazione dei fatti di Calabria), Tipografia Vitale, Napoli, 1905, ristampa Walter Brenner, Cosenza, 1991, dalla quale citiamo, pp.7 –9.

2)       R. Cotroneo, In Calabria. In giro su le rovine del terremoto, in “Rivista storica calabrese”, ottobre, novembre, dicembre, 1905, Reggio Calabria, p. 217. Il contributo di R. Cotroneo è stato pubblicato dalle Edizione Brenner di Casenza con introduzione di F. Kostner. Di F. Kostner sono anche La tragedia di Aiello, Klipper edizioni, Cosenza, 2002 e Il terremoto dell’8 settembre 1905, in “Calabria 2000”, n. 9/90.

3)       M. Quasimodo, op. cit., pp. 3- 4.

4)       C. Alvaro, Calabria, Edizioni, Nemi, Firenze, 1931, p. 5.

5)       Vedi A. Placanica, Calabria in idea, in Storia d’Italia, Le regioni dall’unità ad oggi. La Calabria, a cura di P. Bevilacqua e A. Placanica, Einaudi, Torino, 1985, pp. 587 – 650 e A. Placanica, Il filosofo e la catastrofe: Un terremoto del Settecento, Einaudi, Torino, 1985; A. Placanica, L’Iliade funesta. Storia del terremoto calabro-messinese del1783, vol. I, Corrispondenze e relazioni della Corte, del governo e degli ambasciatori, Gangemi, Roma, 1984.

6)       Si veda M. Ruini, Le opere pubbliche in Calabria. Prima relazione sull’applicazione delle leggi speciali dal 30 giugno 1906 al 30 giugno 1913, Istituto italiano d’Arti grafiche, Bergamo, 1913, ora Laterza, Roma – Bari, 1991.

7)       G. Masi, Introduzione alla ristampa anastatica del volume di O. Malagodi, Calabria desolata, Istituto di studi storici “G. Salvemini”, Messina, 2001, p. XIV.

8)       A. Placanica, Cassa sacra e beni della chiesa nella Calabria del Settecento, Università degli studi di Napoli,  Biblioteca degli “Annali di storia economica e sociale”, Napoli, 1970, p. 74.

9)       Vedi A. Placanica, Cassa sacra, cit., p. 76.

10)    Citazione da A. Placanica, op. cit., p. 76.

11)    F. Galiani, Proposte per la Calabria dopo il terremoto del 1783, in R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, seconda edizione, 1970, vol. I, p. 26. Ora in A. Placanica, L’Iliade funesta. Storia del terremoto calabro – messinese del 1783, cit.

12)     F.Galiani, op. cit., in R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, cit., p. 29.

13)    G. Cingari, Storia della Calabria dall’Unità ad oggi, Laterza,  Roma – Bari, 1982, pp.159.

14)    O. Malagodi, Tra beneficandi e benefattori, “La tribuna”, 13 ottobre 1905, poi in Calabria desolata, Casa editrice nazionale Roux e Viarengo, Roma – Torino, 1905, ora ristampa anastatica per conto dell’Istituto storico “G. Salvemini” di Messina, La grafica editoriale, Messina, p. 248, dalla quale d’ora in poi citiamo.

15)    Cfr. R. Lombardi Satriani, La bontà di un re e la sventura di un popolo, Passafaro, Monteleone, 1905. Ora riproposto dall’editore Rubbettino, a cura di Luigi Lombardi Satriani, Soveria Mannnelli, 2005.

16)    O.Malagodi, La via della desolazione, in Calabria desolata, cit., p. 20.

17)    V. Teti, Nei paesi della desolazione, in “il Quotidiano”, 7 settembre 2005.

18)    V. Teti, Calabria desolata, “il Quotidiano” del 22 agosto 2005.

19)    O. Malagodi, Verso il paese del terremoto, in Calabria desolata, cit., p. 17.

20)    O. Malagodi, La zona litorale, in op. cit., p. 100.

21)    M. Quasimodo, op. cit., p. 17.

22)    C. Nava, Relazione del Comitato milanese di soccorso per i danneggiamenti del terremoto in Calabria, in F. Pugliese, Il terremoto dell’ 8 settembre in Calabria. Immagini e cronache della stampa dell’epoca, Arti grafiche BMB Firenze, 1996, p. 214.

23)    C. Nava, Relazione, cit., in Pugliese, op. cit. p. 217.

24)    C. Nava, Relazione, cit., in F. Pugliese, idem, p. 217.

25)    F. Pugliese, Il terremoto dell’8 settembre 1905 in Calabria, cit., p. 49.

26)    “La rassegna nazionale”, 30 settembre 1905.

27)    “La rassegna nazionale”, idem.

28)   C.Nava, Relazione, cit., in F. Pugliese, Il terremoto, cit., p. 216.

29)   O. Malagodi, Tipi e classi sociali, in Calabria desolata, cit., p. 357.

30)   O. Malagodi, Ibidem, p. 354.

31)   M.. Quasimodo,  Terremoto, cit., pp. 19-20.

32)   O. Malagodi, La crisi agricola, in “Calabria desolata”, cit., p. 206.

33)   O. Malagodi, Pietà per i ricchi, in Calabria desolata, cit., p. 233.

34)   O. Malagodi, Idem.

35)   O. Malagodi, Ibidem,  pp. 223-224

36)   O. Malagodi, op. cit., 226.

37)   Vedi M. R. Ostuni, Il terremoto del 1905 in Calabria: le stesse vergogne di oggi, in “Storia illustrata”, aprile 1981.