sintesi
LINEE
DI VITA di STEVEN ROSE
Steven Rose è professore di biologia e direttore del
Gruppo di ricerca sul cervello e sul comportamento della Open University
in Inghilterra, dove si occupa dei meccanismi molecolari della memoria. A leggere i giornali pare che esista un gene per qualunque cosa, addirittura per entità difficilmente definibili: cosi sarebbero stati individuati i geni per l’aggressività, per l’omosessualità, per l’intelligenza, per l’alcolismo…Questi annunci, più che autentiche scoperte, sono spesso solo caricature di quello che dovrebbe essere la scienza. Purtroppo sono anche il frutto di una visione ultradarwinistica e ultrariduzionistica della biologia e dell’essere umano che gode di un grande seguito. Partendo dalla propria esperienza di biologo Steven Rose demolisce pezzo per pezzo questa concezione, i suoi presupposti logici e storici e le sue false promesse. I processi vitali, argomenta, sono una faccenda assai più ricca e complessa: dunque non possono e non debbono essere ridotti all’egoismo di una stringa di un bit ( il DNA ), ma debbono essere studiati nella complessa interazione di vari sistemi dinamici, dalla cellula dell’individuo, alla specie, all’ambiente. La stessa nascita e l’evoluzione della materia vivente sul nostro pianeta sono comprensibili solo in questa prospettiva, come dimostra Rose in una affascinante ricostruzione. E’ evidente l’importanza anche sociale delle sue
conclusioni. Soprattutto considerando che la tendenza oggi prevalente è
quella di addossare il disaggio all’individuo ( e ai suoi geni ),
sollevando così da ogni responsabilità morale per affidarsi alla mistica
del farmaco e tra poco delle varie terapie genetiche. La comparsa degli attuali entusiasmi per le spiegazioni biologicamente deterministiche della condizione umana risale alla fine degli anni Sessanta. L’impulso non era venuto da uno specifico progresso della biologia o da una grandiosa nuova teoria, ma si riallacciavano a una precedente tradizione eugenetica che, ancora ben radicata negli USA degli anni Trenta, era stata eclissata e spinta ne discredito intellettuale e politico dalla guerra contro la Germania nazista e dal razzismo che aveva ispirato l’Olocausto. Una serie di rapporti di genetisti, antropologi e scienziati sociali, sponsorizzati dall’UNESCO dopo la fine della guerra, spiegò diffusamente quella che sarebbe stata l’interpretazione comunemente accettata nel successivo quarto di secolo, e cioè che le radici dell’ineguaglianza umana non risiedono tanto nell’unicità dei nostri geni quanto nell’ineguale distribuzione della ricchezza e del potere fra le nazioni, le razze e le classi ( la questione dell’ineguaglianza fra i sessi non fu mai sollevata da questi gruppi di consenso). Negli anni Sessanta, un decennio di speranza per l’umanità, assistemmo a lotte per la giustizia sociale in tutto il mondo; l’ascesa di vasti movimenti nazionali di liberazione, di quello dei neri e in seguito di quello delle donne, fu catalizzata, specialmente nei paesi industrializzati, dagli studenti. In risposta venne la riaffermazione di convinzioni antiche ma sino allora sommerse: che, in media, l’intelligenza dei neri e del proletariato fosse geneticamente inferiore a quella dei bianchi e della borghesia, e che l’autorità patriarcale fosse un’inevitabile conseguenza di differenze genetiche e ormonali fra uomini e donne. Inizialmente queste affermazioni non diedero impulso a nuove ricerche, ma riportarono alla ribalta vecchie tradizioni del pensiero biologico e psicologico. Solo a metà degli anni Settanta, con l’emergere di un nuovo e più grandioso complesso di teorie che prese il nome di sociobiologia, il determinismo biologico divenne teoreticamente più coerente. Tali affermazioni vennero energicamente contestate da
numerosi biologi e scienziati sociali, soprattutto da coloro che si erano
schierati con quello che in tempi più ottimisti veniva descritto come
movimento per la scienza radicale. I motivi di questa opposizione erano
sia scientifici sia politici. Le teorie ultradarwinistiche e
sociobiologiche, specialmente quando applicate alle società umane, si
fondavano su incerte evidenze empiriche, su premesse tutt’altro che
impeccabili e su presupposti ideologici non verificati intorno ad aspetti
cosiddetti universali della natura umana. A giudicare dai titoli dei quotidiani o degli
articoli pubblicati da accademici sulle più prestigiose riviste
scientifiche , le controversie dell’ultimo decennio sono state risolte.
La sociobiologia più volgare sarà forse fuori gioco, ma quello che è
stato definito determinismo neurogenetitico, è saldamente
radicato. Ci sono geni con cui spiegare ogni aspetto della nostra vita,dal
successo personale alla disperazione esistenziale : geni per la salute e
la malattia, per la criminalità, per la violenza e per un orientamento
sessuale anormale, e addirittura geni per lo shopping compulsivo. E, come sempre, geni per spiegare le ineguaglianze
sociali che dividono le nostre vite lungo linee di classe, di sesso, di
razza, di etnia…E dove vi sono geni, l’ingegneria genetica e la
progettazione di farmaci offrono quelle speranze di salvezza che
l’ingegneria sociale e la politica hanno abbandonato. Il libro LINEE DI
VITA è nato proprio come tentativo di sfida contro il determinismo
biologico, il riduzionismo, e l’ultradarwinismo. La filosofia
riduzionistica che ha tanto sedotto i biologi, ma le cui conseguenze si
sono rivelate così pericolose, appare un prodotto pressochè inevitabile
di questa metodologia interventista e necessariamente violenta. Noi essere
umani non siamo organismi vuoti, spiriti liberi vincolati solo dai limiti
della nostra immaginazione o, più prosaicamente , dalle determinanti
sociali ed economiche entro le quali viviamo, pensiamo e agiamo. Né siamo
riducibili a nient’altro che macchine per la replicazione del
nostro DNA. Noi siamo, piuttosto , il prodotto della continua dialettica
fra il biologico e il sociale attraverso cui l’umanità si è
evoluta, la storia è stata fatta e noi come individui ci siamo
sviluppati. E’ notevole come Steven Rose, con una storiella,
riesce a darci il significato più completo su quello che oggi gli
scienziati di biologia analizzano secondo la propria disciplina. Il
semplice salto di una rana nello stagno. C’erano una volta cinque biologi che stavano facendo un picnic vicino a uno stagno. Uno di essi notò che una rana, fino ad allora tranquillamente ferma sulla sponda dello stagno, all’improvviso era saltata in acqua. I cinque cominciarono a discutere: perché la rana era saltata? Dice il primo biologo, un fisiologo, << Niente di più semplice. La rana salta perché i muscoli delle sue zampe si contraggono; ed essi si contraggono perché gli impulsi che viaggiano lungo i nervi motori arrivano ai muscoli partendo dal cervello; tali impulsi si originano nel cervello perché impulsi precedenti, arrivando al cervello dalla retina, hanno segnalato la presenza di un serpente, cioè un predatore >>. Questa è una semplice concatenazione causale
<< entro un livello >>: prima l’immagine retinica del
serpente; poi i segnali al cervello; poi gli impulsi lungo i nervi
partendo dal cervello; poi la contrazione muscolare. Un evento segue
l’altro, il tutto in pochi millesimi di secondo. La comprensione dei
dettagli di siffatti sequenze causali è compito della fisiologia. << Ma questa è una spiegazione molto limitata, >> osserva il secondo, un etologo. << Il fisiologo non ha centrato il problema, perché ci ha detto come, ma non perché, la rana è saltata nello stagno. La ragione è la seguente: è saltata perché
ha visto il serpente e allo scopo di evitarlo. La contrazione dei muscoli
della rana non è che un aspetto di un processo complesso, e deve essere
compresa in termini di scopi di tale processo, in questo caso sfuggire
alla predazione. Lo scopo ultimo dell’evitare il serpente è essenziale
per la comprensione dell’azione >>. << Né le spiegazioni dei fisiologi né quella
degli etologi sono adeguate >>, dice il terzo biologo, che studia lo
sviluppo. << Per noi la sola ragione per cui la rana può saltare è
perché durante il suo sviluppo da singolo uovo fecondato a girino
e poi animale maturo, i suoi nervi, il suo cervello e i suoi muscoli sono
stati cablati in modo tale che simili sequenze di attività siano
inevitabili, o, perlomeno, siano la cosa più probabile a qualsiasi
insieme di condizioni di partenza >>. << Nessuna delle tre spiegazioni è veramente
soddisfacente >>, obbietta il quarto biologo, un evoluzionista.
<< La rana salta perché nel corso della sua storia
evolutiva i suoi progenitori si adattarono a farlo alla vista di un
serpente; quelli che non lo facevano vennero mangiati, conseguentemente la
loro progenie non è stata selezionata >>. Il quinto, un biologo molecolare, sorride amabilmente. << Nessuno di voi ha fatto centro. La rana salta a causa delle proprietà biochimiche dei muscoli. Essi sono composti in gran parte da due proteine filamentose interdigitate, chiamate astina e miosina, e si contraggono perché i filamenti scorrono sugli altri. Il comportamento dell’actina e della miosina dipende dagli amminoacidiche compongono le due proteine, e quindi in primo luogo da proprietà chimiche, e in secondo luogo da proprietà fisiche >>. Questo è un programma riduzionistico, e riflette il
modo in cui i biochimici cercano di descrivere i fenomeni biologici. I biologi hanno bisogno di tutti e cinque questi tipi di spiegazione, e probabilmente anche di altri. Non ve n’è uno giusto in assoluto; tutto dipende dagli scopi che ci proponiamo nel momento in cui formuliamo la domanda sulla rana che salta. In realtà, emerge che questo "tutto dipende" è una caratteristica primaria sia dei processi vitali sia dei tentativi dei biologi di spiegarli. La ragione per cui ci si pone la domanda determinerà il tipo più utile di risposta. E’ nella natura del pensiero biologico che tutti i tipi di risposta siano – o dovrebbero essere – parte del come noi tentiamo di capire il mondo. La biologia richiede questa sorta di pluralismo epistemologico: conferire dignità al nostro confuso modo di pensare orinandolo entro una più rigorosa cornice filosofica. Focalizzarsi su ciascun sottoinsieme di spiegazioni significa fornire una spiegazione parziale ; tentare di capire fino in fondo anche il più semplice dei processi vitali richiede di lavorare contemporaneamente con tutti e cinque i tipi di spiegazione. Per qualsiasi fenomeno vivente che osserviamo e desideriamo interpretare, vi sono molte possibili descrizioni legittime. In questa favola dei cinque biologi e della rana che saltò nel lago, vi sono spiegazioni causali entro un livello, descrizioni che collocano la rana in un più complesso ecosistema, e spiegazioni molecolari, di sviluppo ed evoluzionistiche. Questi tentativi non possono essere ricondotti a un’unica vera spiegazione nella quale il fenomeno biologico diventa nient’altro che un assemblaggio molecolare, un imperativo genetico o cos’altro si voglia. Tutto dipende dagli scopi per le quali è richiesta la spiegazione. Per metterla su piano formale, noi viviamo in un mondo materiale che è un’unità ontologica, ma che avviciniamo con diversità epistemologica. La biologia, e i processi vitali che essa studia, non si uniformerà all’orgoglio manifesto della fisica, secondo la quale il compito della scienza è ridurre tutte le spiegazioni del mondo a teorie unitarie del tutto. Le asserzioni della fisica non servono ai biologi per i loro scopi, e sono certamente nocive per la comprensione dei processi vitali. Il tipo di riduzionismo che funziona in fisica o in biologia molecolare fallisce quando si prende in considerazione la mente umana. Gli esseri umani sono: sistemi molto, molto complicati che si sono a un tempo evoluti e adattati imparando ad affrontare bene e in modo differenziato dozzine di variabili alla volta. Il riduzionismo rappresenta un modo di svuotare la vita dei suoi molteplici e ricchi significati, di trasformare l’esperienza personale del singolo individuo in chimica e fisica, in altri termini in meri meccanismi. Questa ricerca di altri significati è la ragione essenziale del rifiuto del riduzionismo da parte della filosofia della New Age
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