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OLOCAUSTO AMERICANO |
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Dal libro di David E.Stannard: "Olocausto Americano", sintesi delle fasi più significative del genocidio più atroce nella storia del Mondo. David Stannard fornisce tutti gli elementi di fatto necessari per capire la dimensione umana della distruzione prodotta su scala continentale dalla violenza e dalla introduzione di malattie mortali. Descrive poi il contesto ideologico e sociale di quelle che furono eufemisticamente chiamate le "Guerre Indiane" negli Stati Uniti per interrogarsi infine sul razzismo e sul genocidio come componenti fondamentali, non ancora superate, della società euro-americana. Inoltre mette in evidenza le componenti oscurantiste del Cristianesimo, la religione protagonista in questa folle tragedia, consumata e legittimata nel nome di Dio. La lettura di questo straordinario libro mi ha fatto capire quante cose abbiamo ancora da imparare, per il semplice fatto che i mass media hanno la grande caratteristica di nascondere tutte le verità scomode. Vi prego di leggere questa sintesi, ne trarrete un beneficio morale notevole, che vi aiuterà a capire quanto sia importante la vera informazione. Piero Calzona |
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Sintesi |
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La Spagna che Cristoforo Colombo e il suo equipaggio lasciarono poco prima dell'alba del 3 agosto 1492, quando salparono da Palos verso l'Atlantico, era una terra violenta e squallida, un luogo di tradimento e intolleranza. Da questo punto di vista la Spagna non si distingueva dal resto dell'Europa. Le epidemie di peste e vaiolo, insieme ai consueti attacchi di morbillo, influenza, difterite, tifo, febbre tifoide e altre malattie, dilagavano frequentemente nelle città europee uccidendo tra il 10 e il 20 per cento della popolazione ogni volta che colpivano.
Verso la metà del XVII secolo, più di ottantamila londinesi - un abitante su sei - morirono di peste nel corso di pochi mesi. E di tanto in tanto, come le altre malattie, ricompariva la pestilenza che fu chiamata Morte Nera. Come accadeva in molti altri centri urbani europei, spiega uno storico specializzato nella materia, «ogni venticinque-trent'anni - e a volte con maggiore frequenza - la città era sconvolta da un'epidemia». Infatti, per secoli, la speranza di vita di un individuo nelle città-lazzaretto d'Europa era così bassa che la popolazione naturale delle città risultava in un costante declino, controbilanciato solo dalle immigrazioni dalla campagna circostante, immigrazioni che uno storico ha definito «vitali per salvare [le città] dall'estinzione».
Anche la carestia era comune. Ciò che J. H. Elliott ha affermato riguardo alla Spagna del XVI secolo può essere ritenuto valido per l’intero contesto europeo. «I ricchi mangiano, e mangiano in eccesso, osservati da un migliaio di occhi affamati mentre consumano i loro pasti pantagruelici. Il resto della popolazione muore di fame». Questo accadeva normalmente. Un lieve aumento del prezzo del cibo poteva causare la morte improvvisa di decine di migliaia di individui che vivevano al limite della denutrizione. In Francia le esistenze di questa moltitudine di persone erano così precarie che, nel XVII secolo, ogni aumento «medio» del prezzo del grano o del miglio uccideva direttamente una parte della popolazione francese quasi uguale al doppio del numero di americani morti nel corso della guerra civile.
Questo accadeva nel XVII secolo, quando le cose iniziavano a migliorare. Nel XV e nel XVI secolo i prezzi oscillavano di continuo, inducendo il popolo a lamentarsi del fatto che «oggi una libbra di carne di pecora costa quanto in passato costava un'intera pecora, una pagnotta quanto una fanega [un bushel e mezzo] di grano, una libbra di cera o d'olio quanto un'arrota [25 libbre spagnole]», come affermò un agricoltore spagnolo nel 1513. La conseguenza di questa situazione economica, ha osservato uno storico francese, era che «l'epidemia che imperversò a Parigi nel 1482 seguì uno schema classico: carestia nelle campagne, fuga dei poveri verso le città in cerca di aiuto, diffusione della malattia, in città, aggravata dalla denutrizione». E nelle campagne spagnole la minaccia della carestia era sempre presente. In alcune zone, come la Castiglia e l'Andalusia, nel corso del XI secolo una serie di cattivi raccolti, a più riprese, causò moltissimi morti. Ma poiché entrambe le cause di morte, la malattia e la carestia, erano comuni in Europa, molti resoconti dei sopravvissuti non presentano alcuna distinzione tra l'una e l'altra. Di conseguenza gli storici, ancora oggi, non riescono a distinguere tra i cittadini morti a causa di un'epidemia e quelli che invece morirono semplicemente di fame.
Nelle città del XV secolo i canali di scolo sui bordi delle strade, pieni di acqua stagnante, erano usati come latrine pubbliche e sarebbe stato così anche nei secoli successivi. Allo stesso modo persistettero altre abitudini dannose che mettevano a repentaglio la salute pubblica, dalla pratica di lasciar marcire in strada le frattaglie in decomposizione degli animali macellati, al «problema particolare» di Londra, come lo ha definito lo storico Lawrence Stone, delle «fosse comuni». Si trattava di «vaste e profonde fosse aperte, nelle quali erano ammucchiati i corpi dei poveri, fianco a fianco, una fila sopra l'altra. La fossa veniva ricoperta di terra solo quando era piena di corpi». Come un contemporaneo, citato nell'opera di Stone, ha osservato con delicatezza: «Il fetore che proviene da queste fosse piene di cadaveri è assolutamente disgustoso, in particolar modo dopo la pioggia e durante la stagione calda».
Oltre al terribile fetore e alla vista ripugnante di morti, cadaveri umani e carcasse d'animali, lasciati in bella vista nelle strade, un moderno visitatore di una città europea di quest'epoca troverebbe repellente anche l'aspetto e l'orribile odore dei vivi. Molta gente non si lavava mai, nemmeno una volta in tutta la vita. Quasi tutti mostravano le conseguenze del vaiolo o di altre malattie deformanti che lasciavano i sopravvissuti parzialmente ciechi, butterati o menomati, e per uomini e donne era normale avere «l'alito cattivo a causa dei denti marci e dei continui disturbi gastrointestinali che possono essere documentati attraverso molte fonti dell'epoca, mentre ulcere purulente, eczema, scabbia, piaghe in suppurazione e altre nauseanti malattie dermatologiche erano altrettanto comuni e spesso duravano per anni».
Nelle città la criminalità era diffusa ovunque. Una tecnica particolarmente comune per derubare qualcuno consisteva nel gettare una grossa pietra o un calcinaccio colpendo il malcapitato dall'alto e poi rubargli gioielli e soldi. Era un periodo in cui, come osserva Norbert Elias, «uno dei passatempi più divertenti del Midsummer Day era bruciare vivi una o due dozzine di gatti», e in cui, come spiega Johan Huizinga, «il continuo dissesto delle città e della campagna causato dalla pericolosa plebaglia [e] la minaccia permanente di provvedimenti di legge duri e precari [...] provocavano una sensazione di incertezza universale». Senza sistemi di controllo sociale culturalmente sviluppati e senza una forza di polizia efficiente, le città d'Europa del XI e del XVI secolo erano poco più che caotici agglomerati di popolazione, dove ladri e briganti controllavano interi quartieri, in cui i ricchi, di notte, erano obbligati a farsi accompagnare da guardie del corpo che li proteggessero lungo la via. In tempo di carestia, le città divenivano lo scenario di insurrezioni popolari causate dalla mancanza di cibo. E la più grave di queste sommosse - sebbene il termine non le renda la dovuta giustizia - fu la rivolta dei contadini che scoppiò nel 1524 e fu il culmine di una serie di rivolte locali che si erano verificate ripetutamente fin dal secolo precedente. La rivolta dei contadini provocò la morte di più di centomila persone.
Per quanto riguarda la vita rurale nei periodi di maggiore calma, la descrizione di Jean de La Bruyère della vita nelle campagne francesi nel XVII secolo fornisce un quadro realistico che confermerebbe quanto gli storici hanno scoperto nelle ricerche sulle comunità rurali europee nel periodo compreso tra il tardo Medioevo e l'inizio dell'epoca moderna: «Animali astiosi, maschi e femmine sparsi nella campagna, scuri, lividi, arsi dal sole, attaccati alla terra che dissodano e rivoltano con irriducibile accanimento; pronunciano frasi articolate e quando si alzano in piedi mostrano un viso umano e, in realtà, sono uomini. Di notte si ritirano nelle loro tane dove si nutrono di pane nero, acqua e radici». Sebbene lo stile sia quello dei caricaturisti, La Bruyère infatti era uno scrittore di satire, il suo ritratto presenta elementi veritieri. La sua descrizione contiene una crudele omissione: questi uomini di campagna maledettamente poveri che conducevano vite di privazioni e miseria non erano «animali astiosi». Erano persone che, seppur represse dai limiti della loro esistenza, erano capaci di provare gli stessi sentimenti di tenerezza e amore, paura e tristezza che sentono tutti gli esseri umani del mondo, in ogni angolo della terra.
Ciò che Lawrence Stone ha affermato riguardo al tipico villaggio inglese ben si adatta alla situazione europea del tempo. Stone spiega che, a causa delle squallide condizioni sociali e dei valori etici predominanti, i villaggi inglesi erano «luoghi pregni di malizia e odio, in cui l'unico legame unificante erano gli episodi occasionali di isteria collettiva, quando la maggioranza degli abitanti si univa temporaneamente per tormentare e perseguitare la strega locale». Come in Inghilterra, anche nel resto dell'Europa c'erano città in cui un terzo della popolazione era accusato di stregoneria e dieci persone su cento, ogni anno, venivano condannate a morte e uccise per questa ragione. In una piccola e remota località della Svizzera, da sempre reputata un luogo pacifico, tra il XVI e il XVII secolo furono uccise più di tremilatrecento persone per presunte attività sataniche. Nel minuscolo villaggio di Wiesensteig furono bruciate sessantatré donne, mentre a Obermarchtal cinquantaquattro persone - su un totale che raggiungeva a malapena le settecento unità - morirono sul rogo in soli tre anni. Benché gli europei dell'epoca provassero le stesse emozioni e gli stessi sentimenti tipici dell'uomo moderno, come afferma Stone «è innegabile che l'odio fosse un sentimento più importante dell'amore».
Al tempo in cui scrisse La Bruyère (diversi anni dopo Cristoforo Colombo, quando le condizioni erano migliorate), i francesi «conoscevano ogni sfumatura di povertà», afferma uno storico moderno, e avevano una serie di termini formali per descrivere i vari livelli di indigenza: pauvre, le vrai pauvre, le mauvaìs pauvre, pauvre valide ou invalide, pauvre honteux, indigent, misérable, nécessiteux, mendiant de profession, mendiant de bonnefoì, mendiant volontaire, mendiant sédentaire e altri ancora. In cima alla lista ci sono quelli che «nei periodi migliori vivono al livello di sussistenza, nei momenti peggiori scendono molto al di sotto del minimo vitale», mentre al fondo ci sono quelli descritti come dans un état à'indigence absolue, cioè «chi non possedeva cibo, abiti adeguati e un luogo dove ripararsi e si è disfatto delle pentole malconce e delle coperte che costituiscono la dote principale delle famiglie operaie». In Francia, una percentuale della popolazione compresa tra il 30 e il 50 per cento del totale apparteneva a una di queste categorie di indigenza, e in regioni come la Britannia, la Normandia occidentale, la zona di Poitou e del Massif, la percentuale aumentava ulteriormente fino al 75 per cento. Nelle aree rurali, tra il 50 e il 90 per cento della popolazione non possedeva terra sufficiente al proprio sostentamento e non aveva altra scelta che migrare, indebitarsi a vita o morire.
E purtroppo questa situazione non si verificava solo in Francia. A Genova, scrive lo storico Fernand Braudel, «i poveri senza casa ogni inverno si offrivano come rematori di galera». Erano fortunati ad avere questa possibilità. Nei climi più rigidi delle regioni settentrionali, durante i mesi invernali, i poveri morivano assiderati. Invece d'estate la peste faceva le sue cicliche apparizioni. Questo era il motivo per cui, nei mesi estivi, i ricchi lasciavano le città ai poveri: come mette in evidenza Braudel, Roma e le altre città divenivano durante il periodo caldo «cimiteri di febbre». In questo periodo, in tutta l'Europa, quasi metà dei bambini morivano prima di raggiungere i dieci anni. Tra le classi sociali più povere - in particolare in Spagna dove il tasso di mortalità infantile superava quasi del 40 per cento quello dell'Inghilterra - la situazione era ancora peggiore. Oltre alla malattia e alla denutrizione, una delle cause alla base di tassi di mortalità infantile così elevati (in Spagna quasi tre bambini su dieci morivano prima di compiere un anno) era l'abbandono.
Migliaia di bambini, cui le famiglie non potevano assicurare nutrimento e cure, erano lasciati morire nei letamai o gettati nei canali di scolo che correvano ai bordi delle strade. Altri erano venduti come schiavi. Sembra che i bambini dell'Europa orientale, i particolare i rumeni, fossero la merce preferita nel commercio di schiavi del XIV e del XV secolo, sebbene ci fossero anche migliaia di adulti ridotti in schiavitù. Tuttavia, per ragioni che è meglio lasciare all'immaginazione, gli schiavi bambini costavano quanto gli adulti, come indica una lettera del XIV secolo scritta da un uomo coinvolto in questo genere di commercio: « Siamo stati informati delle giovani schiave di cui ha bisogno personalmente - scrive al suo potenziale cliente - delle loro caratteristiche, dell'età e di ciò che desiderate che facciano [...] Tutte le volte che giungono navi dalla Romania trasportano alcune [giovani schiave]; ma tenete a mente che le piccole schiave sono costose come le adulte e se ne volete una di un certo valore non la troverete a meno di cinquanta-sessanta fiorini». Quelli che acquistavano schiave in età fertile, a volte erano particolarmente fortunati e ricevevano gratis anche un bambino in arrivo. Infatti, come riferisce lo storico John Boswell, «tra il 10 e il 20 per cento delle schiave vendute a Siviglia erano incinte o stavano allattando, e i loro bambini erano generalmente compresi nel prezzo».
Anche i ricchi avevano i loro problemi. Bramavano e desideravano oro e argento. Le crociate, iniziate quattro secoli prima, avevano accresciuto il desiderio dei ricchi europei di circondarsi di pregiati oggetti esotici - sete, spezie, eleganti tessuti di cotone, droghe, profumi e gioielli -, piaceri materiali che dovevano essere pagati in oro. Così l'oro era divenuto per gli europei «la forza motrice di tutti i governi [...] la loro anima, la loro mente [...] l'unica essenza e la ragione di vita», nelle parole di uno scrittore veneziano dell'epoca. Il rifornimento del metallo prezioso attraverso il Medio Oriente e l'Africa era sempre stato incerto. Tuttavia, le guerre in corso nell'Europa orientale avevano quasi prosciugato le riserve d'oro dell'intero continente. C'era bisogno di un nuovo rifornimento, più regolare e possibilmente meno costoso.
Come accennato in precedenza, la violenza era diffusa ovunque; ma di quando in quando assumeva un carattere particolarmente perverso. Le persecuzioni e i roghi cui erano condannati i presunti collaboratori di Satana erano generalmente questioni ordinarie, ma a Milano, nel 1476, un uomo fu fatto a pezzi da una folla inferocita e le sue membra furono mangiate. A Parigi e a Lione gli ugonotti venivano uccisi e macellati e le varie parti del corpo vendute ai bordi delle strade. Gli episodi di tortura, assassinio e cannibalismo rituale non furono così rari in questo periodo.
In genere questo tipo di comportamento veniva formalmente punito. Infatti alla base della caccia alle streghe e delle persecuzioni religiose, in particolare degli ebrei, c'erano spesso accuse false di attività simili. Negli stessi anni in cui Cristoforo Colombo stava faticosamente viaggiando per l'Europa in cerca di un sostegno economico per le sue imprese marittime, in Spagna imperversava l'inquisizione. Qui, e ovunque in Europa, quelli che non godevano del favore dei potenti - in particolare quelli considerati eretici - erano torturati e uccisi nei modi più ingegnosi: alcuni sul patibolo, sul rogo, sulla ruota, altri erano stritolati, decapitati, scorticati vivi, annegati o smembrati.
Il giorno stesso in cui Colombo iniziò il viaggio che tanto impressionò il mondo, il porto da cui salpò era pieno di navi che deportavano gli ebrei dalla Spagna. In questo periodo tra centoventimila e centocinquantamila ebrei furono costretti ad abbandonare le proprie case (i loro pochi oggetti di valore erano già stati confiscati) e a imbarcarsi. Come descrisse un contemporaneo: Fu commovente assistere alla loro sofferenza. Molti erano consumati dalla fame, specialmente le donne che allattano e i bambini. Madri mezze morte tenevano tra le braccia bambini morenti [...] Difficilmente posso descrivere la bramosia e la crudeltà con le quali furono trattate dagli uomini che li trasportavano. Molti annegarono a causa dell'avarizia dei marinai e chi non poteva permettersi di pagare il trasporto vendeva i figli.
Questo era il mondo che un ex commerciante di schiavi africani, Cristoforo Colombo, e il suo equipaggio si lasciarono alle spalle quando, nell'agosto del 1492, salparono dal porto di Palos. Era un mondo corrotto dalla malattia, quelle malattie che uccidevano moltissime persone ma che, allo stesso tempo, rendevano immuni i sopravvissuti. Un mondo in cui tutti, tranne i ricchi, soffrivano privazioni e stenti, e in cui i ricchi erano bramosi di oro. Un mondo di atroci violenze e fede assoluta in sacre verità. C'è poco da meravigliarsi, quindi, che i primi resoconti che giunsero da quel viaggio al di là dell'Atlantico, che, secondo l'opinione popolare, era diretto in Oriente, destassero scalpore in tutta Europa.
In una lettera composta a bordo della Nina, mentre le navi sulla via del ritorno attraversavano le isole Azzorre, Colombo descrisse la scoperta, compiuta durante i mesi precedenti, di quello che credeva essere il mare Indiano e le «numerose isole popolate da innumerevoli persone». Una delle prime isole su cui giunse, Cuba, che egli chiamò Juana, era «così estesa che pensavo si trattasse della terraferma, la regione del [Catai]». A un'altra grande isola - quella che oggi conosciamo come Hispaniola, dove si trovano gli stati di Haiti e della Repubblica Dominicana - diede il nome di La Spanda. Colombo fu giustamente impressionato dall'estensione di queste isole che, insieme, erano vaste come due terzi della sua patria, l'Italia.
L'ammiraglio continuava la descrizione delle meraviglie che aveva visto in questo passaggio, che deve essere citato per intero se si vuole comprendere, anche solo parzialmente, il profondo impatto che quel viaggio ebbe, quasi immediatamente, sui popoli europei che avevano appena concluso un altro inverno freddo e miserabile: Come Juana, cosi anche tutte le altre [isole] sono fertilissime e questa in particolar modo. Sulla costa ci sono molte insenature naturali, non paragonabili a quelle che ho visto in Occidente, e numerosi fiumi, vasti e puri, che la rendono meravigliosa. Sulle sue terre sorgono molte sierras e montagne altissime, e sono così sublimi che l'isola Tenerife non è nemmeno lontanamente paragonabile a esse. Sono tutte così belle, di migliaia di forme diverse, e tutte sono facilmente accessibili e coperte di alberi altissimi, di migliaia di specie diverse, che sembrano toccare il cielo; mi hanno detto che non perdono mai le foglie e ci credo perché sono così verdi e rigogliosi come in Spagna durante il mese di maggio, e alcuni erano in fiore, altri carichi di frutti [...] e ovunque andai, sentii il canto degli usignoli e di altre migliaia di uccelli diversi nonostante fosse il mese di novembre. C'erano palme di sei o otto tipi diversi bellissime da vedere per la loro splendida varietà, e altrettanto meravigliosi erano tutti gli alberi, i frutti e le piante; e vi erano magnifiche pinete e vasti prati erbosi; e c'è miele, e tante varietà di uccelli e di frutti. Nell'entroterra ci sono miniere di metallo e vi abitano moltissime persone. La Spanola è incantevole, le sierras, le montagne, le pianure, i prati e le terre sono così belli e ricchi e adatti per l'agricoltura, per l'allevamento di bestiame di ogni sorta e per la costruzione di città e villaggi. Le insenature del mare sono indescrivibili e difficilmente immaginabili per chi non le ha viste, e così anche i fiumi, numerosi e imponenti, e i torrenti che trasportano oro. Non era un caso se sembrava un paradiso, un paradiso pieno d'oro. E quando iniziò a descrivere la gente che aveva incontrato, le fantasie paradisiache di Colombo continuarono: Gli abitanti di quest'isola e di tutte le altre isole che ho visto e che non ho visto vivono in completa nudità, uomini e donne, nudi come le loro madri li hanno partoriti, solo alcune donne coprono una parte del corpo con una foglia o con una rete di cotone prodotta a tale scopo. Non usano ferro né acciaio e non possiedono armi e nemmeno sono capaci di usarle, sebbene siano di corporatura robusta e di alta statura, perché sono molto timorosi [...] Sono così ingenui e generosi con tutto ciò che possiedono che nessuno ci crederebbe senza averli incontrati. Qualsiasi cosa possiedano, se viene chiesta loro, non dicono mai di no; piuttosto ti invitano a condividerla con loro e mostrano amore come se stessero donando il proprio cuore; e sono contenti di ricevere qualcosa in dono, qualsiasi cosa sia, di valore o di poco prezzo.
Negli anni che seguirono, Colombo avrebbe affermato ripetutamente che le sue spedizioni e le sue avventure nel Nuovo Mondo non avevano nulla a che vedere con «la pura razionalità, la matematica e le carte geografiche», come due studiosi hanno scritto, ma piuttosto che «i suoi "affari con le Indie" erano la realizzazione delle profezie contenute in Isaia». Considerate con attenzione, oltre ad aiutarci a capire perché Colombo da molti punti di vista fu un navigatore e un timoniere meno abile di quanto si pensi comunemente (una volta giunto nel mar Caribico, di rado sapeva dove si trovava e più volte perse le navi che si trovavano sotto il suo comando), queste affermazioni retoriche di una presunta guida biblica costituiscono un elemento importante per comprendere le reazioni europee alla sua scoperta.
Colombo terminò la lettera, in cui descriveva ciò che aveva visto durante il viaggio, il 4 marzo del 1493. Una versione stampata della missiva fu pubblicata a Barcellona e, meno di un mese dopo, si era diffusa a macchia d'olio. Un mese dopo, a Roma, circolava una versione tradotta in italiano. Ancora un mese dopo ne apparve una in versi. Altre seguirono ad Anversa, Basilea, Parigi, Firenze, Strasburgo, Valladolid e ovunque nell'intero continente e, in molti casi, furono necessarie diverse ristampe. Nei cinque anni successivi al primo viaggio di Colombo, in Europa apparvero almeno sedici diverse versioni tradotte della sua lettera.
Benché non si trattasse dell'Eden descritto nella Bibbia né delle favolose isole della Fortuna della mitologia classica, sembrava che Colombo avesse trovato una sorta di paradiso terrestre. Luoghi simili popolavano da tempo le leggende e i sogni dei popoli europei e sarebbe stato così anche in futuro: non è una coincidenza che, nei due secoli successivi, i luoghi utopici partoriti dalla fantasia di Bacone, More e Harrington si trovassero in remote terre oceaniche a occidente. Ma i miti che descrivevano terre paradisiache e utopiche erano una questione complessa e spesso confusa. In alcune versioni era rappresentata la riscoperta di un tempo di innocente perfezione che risaliva a prima del peccato originale, in altre i sogni di perfezione si basavano sulle aspettative di un tempo futuro di pace e armonia. Ma a ogni mito, presente, passato o futuro che fosse, era inestricabilmente legata un'immagine contraddittoria di un mondo primordiale, una visione satanica di barbarie, ferocia e oscurità.
Ben presto iniziò a diffondersi la voce che Satana in persona vivesse su una di quelle isole del mar Caribico. Forse era naturale che, come ha affermato Lewis Hanke, «nell'immaginazione popolare, nei primi mesi di febbrile eccitazione, l'idea del paradiso terrestre sia stata sostituita dall'immagine di un continente ostile, popolato da guerrieri armati che spuntavano dalle foreste tropicali, o da strane città, per impedire l'avanzata dei soldati spagnoli e gli sforzi missionari dei frati».
Trascorse poco tempo prima che lo stereotipo dei nativi selvaggi e ostili subisse un'ulteriore trasformazione. Come descritto da uno dei più famosi sostenitori di questa tesi, l'eminente studioso spagnolo Juan Ginés de Sepulveda, la successiva rappresentazione degli indiani del Nuovo Mondo fu quella di creature di natura subumana, simili a Calibano, che erano state destinate da Dio «a essere sottomesse all'autorità di principi virtuosi o nazioni civilizzate, in modo che possano apprendere il potere, la saggezza e le leggi dei loro conquistatori e acquisire una morale più elevata, abitudini più meritevoli e uno stile di vita più civile». Le immagini degli indiani come feroci assalitori o come creature di natura inferiore erano false, così come lo erano state le fantasie della scoperta di un luogo simile al paradiso terrestre prima della caduta, ma di questo nessuno si preoccupò. I miti semplicemente venivano formati e riformati, elaborati e rielaborati per svolgere la funzione voluta, in un dato momento, da chi li diffondeva.
Numerosi studiosi contemporanei hanno analizzato con attenzione le conseguenze prodotte dai racconti biblici e dalla mitologia classica nelle menti degli europei durante la cosiddetta «età della scoperta». Benché le immagini di paradisi terrestri e campi Elisi, di cordiali fanciulle e bestie umane dedite al cannibalismo abbiano avuto un forte impatto sulle fantasie europee, ciò che predominò fu il desiderio ardente, a volte maniacale, di potere e di immense quantità d'oro e d'argento. Tra il clero, invece, era diffusa la riconoscenza divina per quelli che avessero illuminato gli «innocenti pagani» del Nuovo Mondo con la grazia di Dio. Non ci sorprende, allora, che nella prima frase della famosa lettera di Cristoforo Colombo alla Corona spagnola, egli avesse scritto: «Di tutte quelle terre ho preso possesso in nome delle Vostre Altezze, per proclamazione e mostrando lo stendardo reale, e nessuno ha sollevato obiezioni». Immaginatevi la scena: in piedi, circondato da qualche ufficiale, sulla bianca sabbia corallina di una minuscola isola tropicale il cui nome è ancora oggi oggetto di dibattito - un'isola «scoperta» da Colombo nonostante fosse popolata e fosse stata di fatto scoperta da altri popoli migliaia di anni prima - l'ammiraglio «prese possesso» della terra e delle persone che vi abitavano. E «nessuno ha sollevato obiezioni». Chiaramente Dio era dalla parte degli spagnoli.
I fatti si svolsero allo stesso modo su tutte le isole del mar Caribico, piccole o grandi che fossero. Ovunque andò, Colombo piantò una croce, «facendo - come disse - le dichiarazioni necessarie» e proclamando il possesso di quelle terre in nome dei sovrani spagnoli che avevano sovvenzionato il viaggio. Benché Colombo avesse annotato sul diario di viaggio che «i popoli di queste terre non comprendono la mia lingua e io non comprendo la loro», sembra essere particolarmente soddisfatto che nessuno degli abitanti dell'isola, che parlavano arawak, abbia sollevato obiezioni alle ripetute proclamazioni in spagnolo che li privavano del controllo di quelle terre. Per quanto, oggi, questa scena possa sembrarci ridicola, a quel tempo la dichiarazione di possesso pronunciata da Colombo era una cerimonia densa di significato, simile a un'altra, altrettanto ridicola, che gli spagnoli imposero ai popoli nativi delle Americhe, il requerimiento.
Dopo Colombo, ogni volta che, durante i viaggi nel nuovo continente, gli spagnoli incontravano degli indigeni, avevano l'ordine di leggere loro una dichiarazione che li informava della verità della dottrina cristiana e della necessità di giurare immediata fedeltà al papa e al sovrano spagnolo. Dopo di che, se gli indiani rifiutavano di prestare giuramento o indugiavano nell'accettare (o, più probabilmente, non comprendevano) il requerimiento, la dichiarazione continuava: Dichiaro che, con l'aiuto di Dio, entreremo con tutte le forze nel vostro paese, combatteremo contro di voi in tutti i modi e vi sottometteremo al giogo e all'obbedienza dovuti alla Chiesa e alla Corona. Prenderemo voi, le vostre mogli e i vostri bambini e vi renderemo schiavi e, in quanto tali, vi venderemo e disporremo di voi secondo il volere della Corona. E prenderemo ciò che possedete, vi arrecheremo ogni offesa e danno possibile come ai servi che non obbediscono, rifiutano di ricevere gli ordini del loro signore, gli oppongono resistenza e lo contraddicono. In pratica, però, gli spagnoli non attendevano che gli indiani rispondessero alle loro richieste. Prima li imprigionavano e poi leggevano i loro diritti, come descrisse uno storico spagnolo che prese parte alla conquista: «Dopo che erano stati ridotti in catene, qualcuno leggeva loro il requerimiento, senza conoscere la loro lingua e senza servirsi di un interprete, e, poiché gli indiani non comprendevano la lingua spagnola, non avevano alcuna possibilità di rispondere. Venivano immediatamente portati via come prigionieri e, se qualcuno non era abbastanza veloce, gli spagnoli non esitavano a usare i bastoni».
Con tali malvagità e perversioni ebbe inizio l'invasione e la distruzione di ciò che molti, tra cui Cristoforo Colombo, avevano considerato un paradiso terrestre. Per dare inizio alla violenza disumana che gli spagnoli perpetrarono nei confronti dei popoli nativi non era necessario leggere il requerimiento. La dichiarazione fu, piuttosto, la giustificazione legale dell'olocausto compiuto da un popolo brutale e religioso fino al fanatismo. Dopo tutto, durante il suo primo viaggio, molto tempo prima che il requerimiento entrasse in vigore, Colombo aveva catturato e rapito uomini e donne indiani, cinque su un'isola, sei su un'altra e altri in tutte le terre che vide, riempiendo le navi di esemplari indiani da mostrare a Siviglia e Barcellona come fossero animali esotici.
Almeno una volta Colombo ordinò di catturare alcune donne indiane con i loro bambini, in modo che tenessero compagnia agli indigeni, perché la sua passata esperienza di rapimento di schiavi africani, scrisse nel diario di bordo, gli aveva insegnato che «gli uomini indiani in Spagna si sarebbero comportati meglio se fossero stati accompagnati dalle loro donne». Lo stesso giorno Colombo descrisse il «marito di una di queste donne e padre di tre bambini, un maschio e due femmine» che seguì la sua famiglia fino all'imbarcazione di Colombo e disse che se dovevano partire « desiderava andare con loro, e mi supplicò a lungo, e ora sono tutti confortati dalla sua presenza». Ma non lo furono per molto. Come un terribile preludio a ciò che sarebbe accaduto in futuro, solo mezza dozzina di schiavi indigeni sopravvisse al viaggio in Spagna, e di questi solo due erano ancora vivi sei mesi dopo. Durante il secondo viaggio, Colombo mise in atto un piano di rapimenti ancora più ambizioso. Ci è stato descritto da Michele de Cuneo, un nobile italiano che accompagnò Colombo nel suo viaggio: Quando le caravelle, sulle quali speravo di fare ritorno a casa, stavano per partire per la Spagna, radunammo nel nostro accampamento milleseicento indiani, uomini e donne, di cui, il 17 febbraio 1495, imbarcammo cinquecentocinquanta tra i migliori. Per queli che rimanevano annunciammo che chiunque li volesse poteva prenderseli; e così fu. E quando tutti si furono riforniti di schiavi, ve ne erano ancora quattrocento a cui fu dato il permesso di allontanarsi. Tra questi vi erano molte donne che stringevano al seno i loro bambini. Per scappare più in fretta, timorose che potessimo catturarle nuovamente, le donne abbandonarono i bambini e iniziarono a fuggire come disperate.
Nessuno sa che cosa accadde a quei seicento nativi che furono imprigionati e resi schiavi per ordine dell'ammiraglio da «chiunque li volesse», ai quattrocento che scapparono per il terrore o ai bambini abbandonati, ma quando le navi di Colombo giunsero in acque spagnole, dei cinquecentocinquanta indiani catturati che aveva condotto con sé duecento erano morti ed erano stati, scrive Michele de Cuneo, «gettati in mare». Quando giunsero a Cadice, metà dei trecentocinquanta schiavi rimasti erano malati e moribondi. Sopravvissero in pochi perché, suppose, «non sono adatti al lavoro, soffrono il freddo e generalmente non vivono a lungo». Quest'ultima affermazione - «generalmente non vivono a lungo» - qualche anno prima non era affatto vera: prima dell'invasione di Cristoforo Colombo, la salute e la speranza di vita dei nativi erano di gran lunga superiori a quelle europee. Ma, quando scrisse, Michele de Cuneo aveva ragione: appena ebbe inizio la colonizzazione spagnola del Nuovo Mondo, il tenace legame con la vita che contraddistingueva ogni nativo si indebolì profondamente. Le malattie provenienti dalla Spagna avevano iniziato a diffondersi in America nel momento stesso in cui Colombo e il suo equipaggio avevano respirato per la prima volta sugli abitanti del Nuovo Mondo. Ma la distruzione sistematica dei popoli nativi non iniziò fino al ritorno di Colombo.
Il secondo viaggio di Colombo segnò il vero inizio dell'invasione delle Americhe. Gli ordini reali, che autorizzavano la spedizione, disposero che fosse allestita per il viaggio la migliore nave dell'Andalusia e che fosse guidata dai piloti e dai navigatori più esperti del regno. Diciassette navi intrapresero il viaggio, a bordo delle quali c'erano più di milleduecento persone: soldati, marinai, coloni, persino una truppa di lancieri e mezza dozzina di preti. Lungo la rotta, alle Canarie, furono caricati altri passeggeri: capre, pecore, bovini e otto maiali furono sistemati sul ponte e nelle stive. Ai primi di gennaio del 1494, la flotta giunse sulla costa settentrionale dell'isola di Hispaniola, il luogo che Colombo aveva scelto per costruire la capitale del suo Nuovo Mondo, la città di Isabella. Ma, appena le navi attraccarono, l'equipaggio iniziò ad ammalarsi e ben presto la malattia si diffuse tra i nativi che erano giunti a salutare portando in dono pesce e frutta, «come se fossimo loro fratelli», scrisse uno degli uomini a bordo. Pochi giorni dopo, il medico di bordo riferì che un terzo degli spagnoli si era ammalato mentre i nativi erano morti ovunque. Colombo ordinò agli uomini sani di esplorare l'entroterra e di trovare le favolose miniere d'oro che tutti credevano che esistessero. Ma molti uomini tornarono alla nave dopo aver contratto una misteriosa malattia.
Per anni gli storici si sono chiesti di quale epidemia si trattasse e perché l'incidenza sia stata così bassa tra gli spagnoli e così alta tra i nativi. Cari Sauer ipotizzò un'infezione intestinale, mentre Samuel Eliot Morison diagnosticò che si trattasse di malaria o di qualcosa causato dal «bere acqua di pozzo o mangiare pesce sconosciuto». Recentemente, Kirkpatrick Sale ha parlato di dissenteria di origine batterica, benché nomini anche la malaria e la sifilide come possibili cause. Altri hanno preso in considerazione davvero di tutto, dal vaiolo alla febbre gialla. Sebbene sia possibile (addirittura probabile) che l'epidemia sia stata provocata dall'interazione di più malattie, i sintomi riferiti non avevano nulla a che vedere con la sifilide, e la malaria non era presente nelle Indie e non lo sarebbe stata ancora per molti anni.40 Per la stessa ragione non poteva trattarsi di vaiolo né di febbre gialla, né poteva essere stata causata da qualcosa che gli spagnoli avevano mangiato o bevuto perché si diffuse con estrema rapidità, non solo tra gli spagnoli, ma anche tra i nativi dell'isola che furono maggiormente colpiti. No, l'ipotesi più recente e originale, la più attendibile dal punto di vista medico - e quella che meglio spiega i sintomi riferiti, tra cui un alto livello di mortalità e la straordinaria contagiosità -identifica quale causa della strage l'influenza portata dai maiali delle isole Canarie.
Se davvero l'epidemia che imperversò sull'isola di Hispaniola nel 1494 fu l'influenza suina, allora, come sostiene Francisco Guerra, medico e storico spagnolo, sarebbe potuta essere una pestilenza di proporzioni devastanti. Oggi si pensa infatti che la malattia che nel 1918 uccise almeno venti milioni di persone fosse l'influenza suina. A differenza degli spagnoli, i nativi dell'isola di Hispaniola, come gli altri popoli indigeni delle Americhe, prima di allora non erano mai stati esposti al virus dell'influenza suina e nemmeno a quelli di molte altre malattie che storicamente sono state associate agli animali domestici. Oltre ad alcuni cani di piccola taglia e ai lama utilizzati dai popoli che vivevano tra le Ande, pochi altri animali erano stati addomesticati in quella zona. Delle numerose pestilenze che nel corso del tempo avrebbero distrutto i popoli nativi americani, l'influenza - di vario tipo, di origine umana o animale -, in quanto a velocità di contagio e numero di morti, era seconda solo al vaiolo e al morbillo. In ogni caso, di qualsiasi malattia si trattasse, l'agente patogeno importato dalla Spagna si diffuse tra i popoli nativi con un'implacabilità mai vista prima. «Morivano così tanti indiani che era impossibile tenere il conto», scrisse Fernàndez de Oviedo, e aggiunse che «ovunque sull'isola gli indiani giacevano morti, il fetore era nauseabondo». E sulla scia della pestilenza che avevano portato, i soldati spagnoli fecero il giro dell'isola chiedendo ai nativi oro o informazioni utili per trovarlo. Erano afflitti dalla malattia e molti morirono. Ma a differenza dei nativi, gli invasori europei e i loro antenati avevano convissuto per secoli con le epidemie. I loro polmoni erano danneggiati, i loro visi butterati, ma l'esposizione alle malattie li aveva resi più forti e resistenti. Così trasportavano le infezioni ovunque andassero, gravose ma raramente fatali, eccetto che per i nativi che incontravano.
Seguendo gli ordini dell'ammiraglio, furono organizzati viaggi di ricognizione sull'isola, a Cuba, in Giamaica e nelle terre vicine. La pestilenza provocata dagli spagnoli continuava a diffondersi. I nativi continuavano a mostrarsi gentili e generosi, come Colombo aveva notato durante il suo primo viaggio, ed erano così sprovveduti nell'uso di armi pericolose che quando Colombo «mostrò loro le spade, le afferrarono dalla parte della lama e si ferirono per ignoranza». Ovunque giunsero durante il loro viaggio di ispezione, i predatori spagnoli, malati, pericolosamente armati e accompagnati da cani feroci addestrati a uccidere e a sventrare, devastarono le comunità locali - già indebolite dalla pestilenza - obbligandole a fornire cibo, donne, schiavi e tutto ciò che desideravano. A ogni sbarco precedente le truppe di Colombo si erano recate sulla terraferma e avevano ucciso indiscriminatamente, quasi per divertimento, qualsiasi animale, uccello o nativo avessero incontrato, «saccheggiando e distruggendo tutto ciò che trovavano», come Fernando, il figlio dell'ammiraglio, affermò con distacco. Ma, una volta giunto sull'isola di Hispaniola, Cristoforo Colombo si era ammalato - di influenza o probabilmente di un'altra malattia - e, a causa del lungo periodo di convalescenza, non potè porre alcun freno alle azioni dei suoi uomini. Le truppe si scatenarono: rubarono, uccisero, violentarono e torturarono i nativi, nel tentativo di costringerli a rivelare dove si trovassero i presunti tesori. Gli indiani provarono a reagire tendendo agguati, che si rivelarono inefficaci, contro gli spagnoli. Ma la forza distruttrice delle malattie e del potere militare spagnolo era più grande di quanto gli indiani potessero immaginare. Infine decisero che la cosa migliore da fare era fuggire. I raccolti furono lasciati a marcire nei campi mentre gli indiani tentavano di fuggire dalla frenesia degli attacchi dei conquistatori. La fame, insieme alle epidemie e alle uccisioni di massa, diede il suo contributo alla sofferenza dei popoli nativi.
Alcuni disperati nativi dell'isola di Hispaniola fuggirono su altre isole. Uno di questi, un cacìque di nome Hatuey, condusse con sé a Cuba il maggior numero di sopravvissuti possibile e quel poco oro che il suo popolo possedeva. Una volta lì, in un luogo chiamato Punta Maisi, riunì i suoi seguaci e mostrò loro i tesori che aveva portato con sé, spiegando che quello era ciò che le truppe spagnole cercavano, che quegli oggetti possedevano un immenso valore per gli invasori assassini. Infine, per proteggere il suo popolo dall'avidità e dalla bramosia di quei vili stranieri, gettò l'oro in un fiume vicino. Non funzionò. Gli spagnoli trovarono Hatuey e la sua gente, la maggior parte fu uccisa, gli altri furono ridotti in schiavitù e il loro capo fu bruciato vivo. E a quanto è stato riferito, mentre lo stavano legando sul rogo, un frate francescano lo esortò a lasciar entrare nel suo cuore Gesù, così la sua anima sarebbe andata in paradiso anziché discendere negli inferi. Hatuey rispose che se il paradiso era il luogo dove andavano i cristiani, allora preferiva andare all'inferno.
I massacri continuarono. Colombo rimase malato per mesi e nel frattempo i suoi soldati vagabondarono incontrollati. Più di cinquantamila nativi morirono negli scontri che ebbero luogo nel periodo in cui Colombo era malato. E quando finalmente riprese le forze, Colombo reagì agli atti di disordinata distruzione compiuti dai suoi uomini organizzandoli. Nel marzo del 1495 radunò le truppe armate, la cavalleria e una ventina di cani addestrati all'attacco. Si misero in viaggio attraverso la campagna, attaccarono violentemente le masse di indigeni, malati e indifesi, e ne uccisero migliaia. Lo schema di queste incursioni fu, nel decennio successivo, il modello classico degli attacchi agli accampamenti indiani compiuti dai conquistatori spagnoli, come ricorda Bartolomé de Las Casas, il più famoso dei missionari spagnoli che presero parte al viaggio: Una volta che gli indiani erano nel bosco, il passo successivo consisteva nel dividersi in squadre e seguirli, e quando gli spagnoli li trovavano, li massacravano senza alcuna pietà, come pecore al macello. Tra gli spagnoli essere crudeli era una regola generale; non semplicemente crudeli, ma straordinariamente crudeli, in modo che il trattamento duro e spietato impedisse agli indiani di considerarsi esseri umani o anche solo di pensare per un minuto. Tagliavano le mani a un indiano e le lasciavano penzolare attaccate a un ultimo brandello di pelle e poi gli dicevano: «Va', ora, dai la notizia al tuo capo». Provavano la lama delle loro spade e la loro forza virile sugli indiani catturati e scommettevano su chi sarebbe riuscito a tagliare la testa di un indiano o a dividerne in due il corpo con un unico colpo. I capi catturati venivano bruciati o impiccati.
Tuttavia, almeno un capo, l'uomo che Colombo considerava il più importante capo indiano dell'isola di Hispaniola, non fu bruciato né impiccato. Fu catturato, ridotto in catene e inviato in Spagna per essere mostrato al popolo e imprigionato, ma, come molti indiani che erano stati costretti a intraprendere quel viaggio, morì prima di raggiungere Siviglia.
Con la stessa determinazione con cui aveva organizzato le truppe, dapprima dedite a stragi indiscriminate e casuali, l'ammiraglio affrontò il compito di rendere sistematica anche la cattura e la schiavitù dei nativi. L'oro era tutto ciò che desideravano, perciò tutti gli indiani sull'isola, esclusi i bambini, furono costretti a consegnare agli spagnoli una certa quantità del prezioso metallo ogni tre mesi. Ogni volta che gli indiani consegnavano l'oro, gli spagnoli davano in cambio un contrassegno da appendere al collo che indicava che il tributo era stato pagato. Gli spagnoli tagliavano le mani a tutti quelli che venivano trovati con un numero inadeguato di contrassegni.
Ma le riserve di oro dell'isola di Hispaniola erano di gran lunga inferiori a ciò che gli spagnoli immaginavano e, di conseguenza, gli indiani che desideravano sopravvivere erano costretti a cercare l'oro da consegnare agli spagnoli trascurando altre attività come la produzione di cibo. Le carestie, iniziate tempo prima, quando gli indiani avevano tentato di fuggire alla furia dei conquistatori, divennero più frequenti, mentre nuove malattie portate dagli spagnoli colpivano con maggiore intensità i nativi deboli e malnutriti. E i soldati continuavano a uccidere i nativi per puro divertimento.
Sono moltissimi i racconti della crudeltà omicida degli spagnoli. Per divertimento « strappavano i bambini dalle braccia delle loro madri e spaccavano loro la testa contro le rocce». I corpi di altri neonati «li infilzavano con la spada [...] insieme a quelli delle loro madri e di tutti quelli che si trovavano davanti». A Cuba, una truppa formata da un centinaio di spagnoli si fermò sulle rive di un fiume asciutto e affilò le spade sulle pietre. Ansiosi di mettere alla prova le lame, racconta un testimone, impugnarono le spade e iniziarono a sventrare, tagliare e uccidere quelle creature innocenti, uomini, donne, bambini e anziani, erano tutti seduti, intenti nelle loro attività, e furono terrorizzati vedendo le giumente e gli spagnoli. E nel giro di pochi minuti erano tutti morti. Gli spagnoli entrarono nella grande casa che si trovava lì vicino e, con la stessa crudeltà, a colpi di spade e pugnali, uccisero tutti i presenti; dall'interno proveniva un torrente di sangue come se fossero state uccise molte mucche [...] Vedere le ferite che coprivano i corpi dei morti e dei moribondi era uno spettacolo orrendo.
Questo massacro iniziò nel villaggio di Zucayo dove, poco tempo prima, gli indiani avevano offerto ai conquistatori un banchetto a base di manioca, frutta e pesce. Da lì si diffuse nella regione. Nessuno sa con precisione quanti indiani furono uccisi durante questo crudele massacro, ma Las Casas ipotizza che siano morte più di ventimila persone prima che la sete di sangue dei soldati spagnoli si placasse. Un altro resoconto, di un gruppo di frati domenicani, parla di come gli spagnoli trattavano i bambini: Alcuni cristiani incontrarono una donna indiana che allattava il suo bambino e, poiché il cane che avevano con loro era affamato, strapparono il bambino dalle braccia della madre e lo gettarono ancora vivo al cane che lo divorò sotto gli occhi della madre [...] Quando tra i prigionieri vi erano donne che avevano appena partorito, se il neonato piangeva, lo afferravano dalle gambe e lo scaraventavano contro le rocce o lo appendevano nella giungla condannandolo a morte certa.
E ancora un altro episodio cui assistette Las Casas: Gli spagnoli si divertivano a inventare modi sempre più crudeli per uccidere i nativi. Costruirono un patibolo lungo, ma abbastanza basso da permettere alle dita dei piedi di toccare il terreno evitando lo strangolamento, e vi appesero tredici [nativi] in una sola volta in onore di Cristo nostro salvatore e dei dodici apostoli. Quando gli indiani furono appesi, ancora vivi, gli spagnoli misero alla prova la loro forza e le loro spade, li squarciarono in un solo colpo facendo fuoriuscire le interiora, e c'era chi faceva di peggio. Poi gettarono intorno della paglia e li bruciarono vivi. Un uomo catturò due bambini, all'incirca di due anni, trafisse loro la gola con un pugnale e li gettò in un precipizio.
Se qualcuno di questi racconti suona tristemente familiare ai lettori che ricordano i massacri compiuti a My Lai, a Song My e in altri villaggi vietnamiti in un passato non troppo lontano, l'analogia è rinforzata dal termine che gli spagnoli usarono per definire la loro campagna di terrore: «Pacificazione». Ma per quanto orribili siano state le stragi compiute in Vietnam, non furono nulla in confronto a ciò che accadde sull'isola di Hispaniola cinque secoli fa: la popolazione dell'isola, che nel 1492 ammontava a circa otto milioni di individui, diminuì della metà prima della fine del 1496. E dopo il 1496 il tasso di mortalità accelerò ulteriormente.
Rappresentando graficamente il declino della popolazione indigena dell'isola di Hispaniola, si osserva un curioso picco intorno all'anno 1510, quando il numero dei nativi, fino ad allora in continua diminuzione, si stabilizzò e aumentò, seppur di poco. Poi riprese l'inesorabile spirale verso l'estinzione. Tuttavia questo temporaneo aumento demografico non indica un momento di tregua per la gente dell'isola né una controtendenza nello spaventoso declino della popolazione di Hispaniola. E’ piuttosto una nota marginale, passeggera e illusoria, che rappresenta l'olocausto che gli spagnoli stavano compiendo nello stesso periodo nel resto del mar Caribico: il declino inarrestabile della popolazione di Hispaniola non si era interrotto, il numero di indigeni sull'isola aumentò solo a causa dell'importazione di decine di migliaia di schiavi dalle isole vicine, nel tentativo infruttuoso di rimpiazzare i nativi di Hispaniola che stavano morendo.
Ma gli schiavi importati morirono con la stessa rapidità dei nativi di Hispaniola: morirono quasi mezzo milione di indigeni delle Bahama, in gran parte usati dagli spagnoli come ricambio, di breve durata, degli abitanti indigeni dell'isola di Hispaniola che stavano progressivamente scomparendo. Poi fu la volta di Cuba: alla sua immensa popolazione toccò lo stesso destino. Nel corso di un quarto di secolo, milioni di indigeni caribici furono di fatto uccisi nel vortice di efferata violenza dovuto alla crudeltà e all'avidità degli spagnoli, e ciò indusse i mercanti di schiavi a cercare nuove riserve di uomini sulle isole minori che si trovavano al largo della costa continentale. La prima incursione fu compiuta nel 1515 quando gli indigeni di Guanaja, nelle Islas de la Bahìa al largo dell'Honduras, furono catturati e deportati nei campi di lavoro di Cuba, sempre meno popolati. Seguirono altre spedizioni in cerca di schiavi, e nel 1525, quando Cortes giunse nella regione, tutte le Islas de la Bahìa erano state saccheggiate e i loro uomini deportati.
Per sfruttare a pieno la terra e la sua popolazione e per soddisfare le crescenti e pericolose ambizioni delle truppe armate spagnole, che avevano già organizzato delle rivolte, Colombo istituì un programma chiamato repartimiento o «cessioni indiane» e successivamente, dopo qualche modifica, noto come sistema delle encomìendas. Consisteva nella ripartizione non solo della terra, ma di interi popoli e comunità il cui possesso veniva ceduto a padroni spagnoli. Il padrone era libero di fare ciò che desiderava della «sua gente», poteva farli lavorare nei campi, mandarli nelle miniere o lasciarli liberi di non fare nulla, come afferma Cari Sauer, «senza alcun beneficio o limite di tempo». Il risultato fu un'ulteriore diffusione della crudeltà e della devastazione. Preoccupati solo di accumulare le ricchezze materiali che potevano essere strappate alla terra, i supremi signori spagnoli dell'isola di Hispaniola trasferirono i loro schiavi in località a loro sconosciute - «le strade che conducevano alle miniere brulicavano come formicai», ricorda Las Casas - li privarono del cibo e li costrinsero a lavorare fino allo sfinimento. Nelle miniere e nei campi dove lavoravano, gli indiani venivano radunati sotto la supervisione dei sorveglianti spagnoli, chiamati mineros nelle miniere ed estancieros nelle piantagioni, che «trattavano gli indiani con tale rigore e brutalità che sembravano i ministri degli inferi, giorno e notte li percuotevano, li prendevano a calci, li frustavano e il modo più gentile con cui si rivolgevano loro era chiamandoli cani». Inutile dirlo, alcuni indiani tentavano di sfuggire a questo destino. Venivano scovati dai mastini e, una volta catturati, quando non venivano dilaniati sul posto, erano riportati indietro e sottoposti a un finto processo cui partecipavano tutti gli altri indiani cosicché capissero qual era la punizione per chi fuggiva. I fuggiaschi erano condotti dinanzi al vìsitador [magistrato-ispettore spagnolo] e all'accusatore, cioè il pio padrone che li accusava di essere cani ribelli e buoni a nulla e chiedeva per loro una punizione esemplare. Il vìsitador ordinava che fossero legati a un palo ed egli stesso, l'uomo più onorevole della città, afferrava una frusta catramata da marinaio dura come il ferro, del tipo usato nelle galere, e li frustava con le sue mani, fino a far sanguinare i loro corpi nudi, ridotti a pelle e ossa dalla fame. Poi, lasciandoli stesi al suolo quasi morti, si fermava e minacciava di ripetere il trattamento se l'avessero fatto ancora.
Di tanto in tanto, quando gli schiavi erano così distrutti dalla malattia, dalla denutrizione e dallo sfinimento che non riuscivano più a lavorare, venivano mandati via dalle miniere e dalle piantagioni in cui lavoravano. Las Casas stimò che solo il io per cento degli indiani riusciva a sopravvivere fino a quel momento. Tuttavia, continua Las Casas: Quando era loro concesso di tornare a casa, spesso la trovavano deserta e non avevano altra possibilità che vagare per i boschi in cerca di cibo e in attesa della morte. Quando si ammalavano, e ciò accadeva abbastanza spesso perché sono un popolo debole, non avvezzo a lavori così pesanti, gli spagnoli non ci credevano e senza pietà li chiamavano indolenti, li prendevano a calci e li percuotevano; e quando la malattia era evidente li mandavano via perché ormai inutili, dando loro un po' di pane di tapioca per il viaggio di decine e decine di chilometri che dovevano intraprendere per tornare ai loro villaggi. Allora se ne andavano, molti si abbandonavo nel primo corso d'acqua e lì morivano in totale disperazione; altri resistevano più a lungo, ma pochi riuscivano a tornare a casa. A volte, sulla via, mi imbattevano in cadaveri e moribondi che ansimano in preda all'agonia e mormorano: «Fame, fame».
Di fronte all'assoluta disperazione, gli indiani si arrendono. Alcuni si suicidano, molti si rifiutano di avere figli comprendendo che i loro discendenti, anche se sopporteranno le crudeltà degli spagnoli, non saranno altro che schiavi. E altri, scrive Las Casas, si resero conto che, senza aver commesso nessuna colpa, erano stati derubati del loro regno e delle loro terre, privati di ogni libertà e della loro stessa vita, allontanati dalle loro mogli e dalle loro dimore. Quando videro se stessi perire di giorno in giorno a causa delle crudeltà e dei trattamenti disumani che gli spagnoli riservavano loro, e videro i loro fratelli sottoposti a ogni forma di tortura, schiacciati al suolo dai cavalli, fatti a pezzi dalle spade, mangiati e dilaniati dai cani, sepolti vivi [...] decisero di abbandonarsi al loro destino senza più combattere, mettendosi nelle mani dei nemici che potevano fare di loro tutto ciò che desideravano.
A volte accadeva che i nativi trovassero il modo per riunirsi a quanto restava delle loro famiglie. Ma quando i mariti e le mogli si ricongiungevano erano così esausti e depressi che non provavano alcun desiderio per i rapporti coniugali e così cessavano di procreare. Invece i neonati morivano perché le loro madri, denutrite e sottoposte a dure fatiche, non producevano abbastanza latte per nutrirli; per questa ragione, mentre mi trovavo a Cuba, morirono settemila bambini in tre mesi. Alcune madri, per disperazione, annegavano i loro bambini, altre abortivano servendosi di erbe particolari. I mariti morivano nelle miniere, le mogli morivano al lavoro e i bambini morivano per mancanza di latte, mentre gli altri non avevano tempo ed energia per procreare: nel giro di poco tempo questa terra, fertile e ricca ma molto sventurata, si spopolò. Come abbiamo già detto, nel 1496 la popolazione dell'isola di Hispaniola era notevolmente diminuita, dagli otto milioni di abitanti del 1492 si era scesi a quattro-cinque milioni. Nel 1508 era scesa a centomila persone. Nel 1518 sull'isola erano rimasti meno di ventimila nativi. E nel 1535, secondo i principali studiosi del campo, «la popolazione indigena si era di fatto estinta».
In un arco di tempo più breve di una vita umana, un'intera cultura di milioni di persone, che da migliaia di anni vivevano in quelle terre, era stata sterminata. Lo stesso destino toccò anche ai popoli nativi delle isole circostanti del mar Caribico. Di tutti i terribili genocidi commessi nel corso del XX secolo contro armeni, ebrei, zingari, ibo, bengalesi, timoresi, cambogiani e ugandesi, nessuno ha raggiunto proporzioni simili e nessuno ha provocato la morte di così tanti o di una percentuale tanto alta di innocenti. E poi gli spagnoli rivolsero la loro attenzione verso il continente, le regioni del Messico e dell'America centrale. Il massacro era appena incominciato. Era la volta della splendida città di Tenochtitlàn.
I massacri ingiustificati e l'assoluto sadismo che i soldati spagnoli avevano dimostrato sull'isola di Hispaniola e nel Messico centrale caratterizzarono anche la lunga marcia verso sud. Numerosi resoconti scritti da diversi testimoni raccontano di indiani che camminavano verso le miniere, incatenati l'uno all'altro per il collo, decapitati se solo inciampavano; di bambini intrappolati e bruciati vivi nelle loro case, o uccisi a pugnalate perché camminavano troppo lenti; di donne cui gli spagnoli tagliavano i seni, e di quelle cui legavano ai piedi pesanti zucche prima di lasciarle annegare nei laghi; di neonati, strappati dal seno delle loro madri, per essere uccisi e abbandonati ai lati delle strade per indicare la via; di indiani «smarriti» smembrati e ricondotti nei loro villaggi con le mani e i nasi mozzati legati attorno al collo; di «donne incinte e prossime al parto, di bambini, di anziani, di tutti quelli che riuscivano a catturare» gettati dentro fosse in cui erano conficcati pali e «infilzati, uno sopra l'altro, fino a quando le fosse non erano piene». E molto, molto altro ancora.
Uno dei passatempi preferiti dei conquistatori era «dare la caccia agli indiani con i cani». Gli spagnoli viaggiavano accompagnati da decine di greyhound e di mastini, allevati con una dieta a base di carne umana e addestrati a sventrare gli indiani, che usavano per terrorizzare gli schiavi e per intrattenere le truppe. Recentemente è stato pubblicato un intero libro, Dogs of the Conquest, sulle prodezze di questi animali che seguirono i padroni durante tutto il periodo della conquista spagnola. «Un cane aizzato a dovere - scrivono gli autori - poteva inseguire un "selvaggio" con lo stesso zelo generalmente riservato a cervi o cinghiali [...] Per molti conquistatori gli indiani non erano altro che animali selvaggi e i cani erano addestrati a inseguire e fare a pezzi le prede umane con lo stesso entusiasmo che provavano cacciando animali selvaggi.
E questo è proprio ciò che accadde a una comunità dopo l'altra. Quasi tutti furono uccisi. Naturalmente con alcune eccezioni. Ma complessivamente, nel Messico centrale, la popolazione diminuì del 95 per cento nei settantacinque anni successivi all'arrivo degli europei, da più di 25 000. 000 persone nel 1519 a meno di 1 300.000 nel 1595. E il Messico centrale è un esempio rappresentativo di ciò che avvenne in tutta la regione. Anche facendo riferimento alle stime più basse della popolazione precolombiana del Messico sudorientale, il numero degli abitanti diminuì da 1.700.000 a 240.000 in un secolo e mezzo. Nel Messico settentrionale, all'incirca nello stesso periodo, la popolazione indigena si ridusse da più di 2.500.000 a meno di 320.000 persone. Ovunque giunsero gli invasori, la storia si ripetè. Sull'isola di Cozumel, al largo della costa orientale del Messico, più del 96 per cento della popolazione fu distrutta nei settant'anni successivi all'arrivo degli spagnoli. Sugli altipiani del Cuchumatan, in Guatemala, la popolazione diminuì dell'82 per cento nei cinquant'anni successivi al contatto con gli europei, e del 94 per cento - da 260. 000 a 16.000 - in meno di un secolo e mezzo. Nel Nicaragua occidentale morì il 99 per cento della popolazione (passando da più di 1.000.000 a meno di 10.000 persone) nei sessant'anni dopo l'invasione spagnola. Nell'Honduras occidentale e centrale il 95 per cento degli abitanti furono sterminati nel giro di mezzo secolo. A Cordoba, vicino al golfo del Messico, si estinse il 97 per cento della popolazione in poco più di un secolo e lo stesso avvenne nella vicina Jalapa, dove la popolazione scese da 180.000 persone nel 1520 a 5000 nel 1626. Con la stessa terribile regolarità, in innumerevoli altre località in tutto il Messico e l'America centrale, l'intrusione europea implicò l'improvvisa e quasi totale scomparsa delle popolazioni che avevano vissuto in quelle terre per millenni.
J. H. Elliott ha stimato che nel 1570 circa 118 000 spagnoli si fossero stabiliti nel Nuovo Mondo; allo stesso ritmo sarebbero stati più di 150 000 alla fine del secolo. Elliott, Imperiai Spam cit., p. 176. Stime più recenti parlano di 200 000 e forse di più, sebbene un numero costante di persone facesse ritorno in Spagna. Il numero di indiani morti è calcolato secondo le stime della popolazione precolombiana di queste regioni compresa tra 65 milioni e 90 milioni. La prima cifra è la stima più recente, quella di Russel Thornton; la seconda è la media delle stime più comunemente citate, quella calcolata da Henry Dobyns. Cfr. Russel Thornton, American Indian Holocaust and Survival: A Population History Sìnce 1492, University of Oklahoma Press, Norman 1987, pp. 22-32; e Henry F. Dobyns, Estimating Aboriginal American Population: An Appraìsal of Techniques with a New Hemispheric Estimate, in «Current Anthropology», vii (1966), pp. 395-416. Tuttavia, questa stima potrebbe essere troppo bassa per due motivi. Prima di tutto, Dobyns potrebbe avere ragione nel credere che le sue prime stime fossero troppo basse. In secondo luogo, questo calcolo è basato approssimativamente su un declino del 90 per cento, piuttosto che sul tradizionale più del 95 per cento nel corso di un secolo. Questo è stato fatto per tenere conto dei popoli nativi con cui gli europei non entrarono in contatto fino all'inizio del XVII secolo, sebbene tutti i maggiori centri abitati - cioè la maggior parte delle popolazioni del Mesoamerica e del Sud America, i più colpiti sia dalla violenza del genocidio sia dalla malattia - avessero già subito l'invasione degli europei e i suoi disastrosi effetti nei primi decenni della conquista.
Naturalmente tutto questo era «il volere di Dio», come disse il testimone che riferì questi eventi, «e ciò infine ci dà ragione di dire: quanto è immensa la sua bontà! quanto è grande la sua grazia!». O come espresse lo stesso pensiero un altro scrittore del tempo, «così il Signore Gesù li farà inchinare dinanzi a lui, e farà loro mangiare la polvere».
Gli invasori inglesi Tutto ha avuto inizio con le pestilenze portate dagli inglesi e si è concluso con la spada e il moschetto. Il culmine, in tutta la regione, è stato definito «grande dispersione». Prima dell'arrivo degli inglesi - per scegliere un esempio riferito a popoli che vivevano più a nord dell'area di cui abbiamo parlato finora - la popolazione degli abenaki occidentali in New Hampshire e Vermont si aggirava intorno alle dodicimila unità. Meno di un secolo dopo, erano sopravvissuti solo duecentocinquanta nativi, un tasso di distruzione del 98 per cento. Gli altri stermini compiuti in questa regione sono ugualmente terribili: verso la metà del xvn secolo il popolo dei moicani registrava una distruzione del 92 per cento; il popolo mohawk una distruzione del 75 per cento; il popolo degli abenaki orientali una distruzione del 78 per cento; il popolo maliseet-passamaquoddy una distruzione del 67 per cento.
Probabilmente questo era l'unico punto su cui i puritani del New England e i cattolici spagnoli della California si sarebbero trovati d'accordo. Così, usando le truppe spagnole per catturare gli indiani e condurli entro le palizzate delle missioni, i padri spagnoli facevano il possibile per convertire i nativi prima di ucciderli. E li uccidevano. Prima ci furono le missioni gesuite, fondate all'inizio del XVIII secolo, da cui sono pervenute poche statistiche relative alla vita degli indiani. Poi i francescani presero il loro posto. Alla missione di Nuestra Senora de Loreto, riferì il francescano padre Francisco Palóu, durante i primi tre anni di amministrazione francescana furono battezzati 76 bambini e adulti, mentre ne furono seppelliti 131. Alla missione di San José Cumundù, nello stesso periodo di tempo, furono battezzate 94 persone mentre 241 morirono. Alla missione di Purisima de Cadegomó ne furono battezzate 39 e ne morirono 120. Alla missione di Nuestra Senora de Guadalupe le cifre furono simili: 53 battesimi, 130 morti. Lo stesso avvenne nelle altre, dalla missione di Santa Rosalia de Mulegé, con 48 battesimi e 113 morti, alla missione di San Ignacio, con 115 battesimi e 293 morti: tutti nello stesso periodo iniziale di tre anni.
In simili condizioni le malattie introdotte dagli spagnoli dilagavano violentemente: le epidemie di morbillo, vaiolo, febbre tifoide e influenza ricorrevano con frequenza, mentre la sifilide e la tubercolosi divennero, come affermò Sherburne F. Cook, malattie «totalitarie»: praticamente tutti gli indiani ne erano afflitti. Per quanto riguarda la malnutrizione, nonostante nelle piantagioni delle missioni in cui lavoravano gli indiani i raccolti fossero così abbondanti che Golovnin li definì «straordinari» e «sconosciuti all'Europa», e nonostante le immense mandrie di bestiame e l'abbondanza di pesce e molluschi a disposizione, il cibo dato agli indiani era, secondo la sua descrizione, una «sorta di pastone fatto di farina d'orzo bollita in acqua con mais, fagioli e piselli: di tanto in tanto veniva data loro carne di bue, mentre alcuni tra i più diligenti [indiani] pescavano per conto loro». In media, secondo l'analisi dei dati fornita da Cook, l'apporto calorico di un indiano delle missioni che lavorava nei campi era di circa 1400 calorie al giorno, che scendevano a 715 o 865 calorie al giorno in missioni come quelle di San Antonio e San Miguel. Per porre questi dati in un contesto più ampio, basti pensare che l'apporto calorico di uno schiavo afro americano del XIX secolo era di più di 4000 calorie al giorno e quasi di 5400 calorie al giorno per i maschi adulti che lavoravano nei campi. Secondo i moderni standard occidentali questi valori sembrano molto alti, ma non sono affatto eccessivi se si tiene conto del dispendio energetico dei lavoratori agricoli. Come spiega l'autore delle stime: «Una dieta con 4206 calorie al giorno per schiavo, mentre un apporto superiore non è né eccessivo né generoso, ma semplicemente adeguato per fornire energie sufficienti per lavorare come uno schiavo».
Naturalmente, c'erano buone ragioni per cui gli indiani temevano le conseguenze della fuga e della cattura. Poiché la minima offesa arrecata ai missionari era punita con quindici frustate, mentre quelle più gravi, come la fuga, «causavano un centinaio di frustate e le catene della cella di detenzione», quelli che venivano catturati mentre tentavano di liberarsi dalla prigionia delle missioni potevano ritenersi fortunati di essere frustati cento volte e di essere imprigionati con catene attaccate a un pesante ceppo. Un viaggiatore descrisse così le torture inflitte a quelli che avevano tentato la fuga: «Erano legati con corde di cuoio grezzo e alcuni perdevano sangue dalle ferite, c'erano anche alcuni bambini legati alle loro madri».
L'influenza del Cristianesimo Il successo ottenuto dal cristianesimo, divenuto la religione ufficiale di tutta l'Europa, è dovuto all'esuberante intolleranza dei suoi seguaci. In un certo senso la fede stessa era fondata sull'idea di lotta spirituale - la lotta colossale tra il bene e il male, tra Dio e Satana e sul concetto che non credere in Dio volesse dire credere in Satana. Di conseguenza, tollerare lo scetticismo nei confronti dei dogmi centrali del cristianesimo significava indebolire la fonte della fede stessa. In breve, i non credenti erano reputati uomini che desideravano la morte del Dio dei cristiani.
Ogni violazione delle leggi di Dio e, di conseguenza, ogni violazione della dottrina cristiana, può essere considerata un'ingiustizia che merita una punizione violenta e senza limiti. Inoltre le [...] colpe del nemico meritano la punizione della popolazione nemica senza alcuna considerazione delle differenze tra soldati e civili. Spinti dal giusto furore, i guerrieri possono uccidere impunemente anche quelli il cui animo è innocente.
Dopo le parole di Agostino, la Chiesa accettò con entusiasmo l'idea di «guerra giusta» e da qui sviluppò il concetto di «guerra di missione» o guerra santa, un'idea simile, sotto certi aspetti, alla jihad islamica. Questa evoluzione del pensiero cristiano acquisì una grande importanza negli ultimi anni dell'XI secolo, quando l'Europa era scenario di immani disastri alluvioni, pestilenze, siccità e carestia - e possedeva schiere di soldati permanenti senza alcuna occupazione che vivevano alle spalle dei contadini.
Prima che Cristo tornasse, tutti i cristiani lo sapevano, il vangelo sarebbe dovuto essere diffuso in tutto il mondo. Diffondere il vangelo in tutto il mondo significava che tutti i popoli del mondo, una volta localizzati, lo accettassero, e questo implicava a sua volta la totale conversione o lo sterminio di tutti coloro che professavano religioni diverse. E implicava anche la liberazione di Sion, simbolo della Terra Santa, e probabilmente anche la scoperta del paradiso terrestre. Cristoforo Colombo lo sapeva, ne era addirittura ossessionato. A modo suo Isabella, la regina di Spagna, condivise la sua visione grandiosa e la sua ossessione. Malgrado ciò, quando nel 1486 si era presentato per la prima volta alla corte di Spagna in cerca di sostegno per la sua avventura, era stato respinto seccamente. E comprensibile. La Spagna in quel periodo era impegnata a combattere contro i mori a Granada. La Corona era impoverita. E Colombo proponeva un investimento tutt'altro che sicuro. Tuttavia, cinque anni dopo, il re e la regina cedettero. La ragione per cui, nel 1491, cambiarono idea, non fu mai del tutto chiarita, ma l'insaziabile sete di vittoria di Isabella sull'Islam ebbe certamente un ruolo importante nella decisione. «Un viaggio riuscito - scrive J. H. Elliott avrebbe messo la Spagna in contatto con i paesi d'Oriente, il cui aiuto era necessario nel conflitto contro i turchi. Colombo avrebbe potuto anche, con un po' di fortuna, trovare la strada per tornare passando da Gerusalemme, aprendo una rotta per attaccare l'impero ottomano alle spalle. Inoltre, Isabella era attratta dalla possibilità di gettare le fondamenta di una grande missione cristiana in Oriente. Nel clima di grande fermento religioso che caratterizzò gli ultimi mesi della campagna di Granada, anche i progetti più avventati sembravano realizzabili».
Fu attraverso l'esame di queste fonti e le lunghe conversazioni con i monaci francescani, che erano convinti che la fine fosse ormai prossima, che Colombo immaginò con precisione quando ci sarebbe stato il secondo avvento di Gesù Cristo. Lo fece attraverso una sorta di semplicistica numerologia biblica che egli stesso aveva elaborato, ma anche attraverso l'osservazione degli eventi storici che lo circondavano. Il fallimento, come il successo, è sempre stato facilmente assorbitio dall'onnicomprensiva logica millenaristica di coloro che erano convinti che il ritorno di Cristo sulla terra fosse imminente e che il suo regno sarebbe durato mille anni; anche le prove contraddittorie furono interpretate in modo da condurre alla conclusione voluta. Così, l'ostinata resistenza degli ebrei alla conversione e gli allarmanti successi dei musulmani in Turchia facevano parte del grande disegno di Dio, la verifica della fede dei cristiani - l'inevitabile oscurità prima dell'alba pensava Colombo. Al contrario, la recente espulsione degli ebrei dalla Spagna (insieme al battesimo di quelli che si erano pentiti) e la caduta dei musulmani a Granada erano indicazioni altrettanto chiare dell'inizio di un nuovo glorioso giorno.
Ciò che, prima della sua partenza nel 1492, costituiva nella mente di Colombo un'annotazione marginale divenne, alla fine del suo terzo viaggio nel 1500, una teoria pienamente sviluppata (benché confusa e disordinata), quando iniziò la compilazione dell'opera che chiamò Libro de las Profecias, il suo libro delle profezie: una raccolta di centinaia di citazioni tratte dalle Scritture, dai primi scrittori cristiani e dagli autori classici, tese a dimostrare che alla fine dei tempi mancava un secolo e mezzo, che gli ebrei, gli infedeli e i pagani di tutto il mondo sarebbero stati ben presto distrutti o convertiti e che nel giro di poco tempo la Terra Santa sarebbe stata riconquistata. All'inizio del XVI secolo Colombo era certo che i suoi viaggi e le sue scoperte avessero confermato tutto ciò. Inoltre, non solo ognuno di questi eventi miracolosi sarebbe stato ben presto avviato dal messia-imperatore spagnolo, così diceva la profezia, ma la conquista e la liberazione finale di Gerusalemme sarebbero state finanziate da immense quantità d'oro che Colombo si aspettava di trovare nelle isole densamente popolate che aveva scoperto al largo di quella che continuava a considerare Asia, o nei territori continentali.
Nel corso degli stessi secoli i cristiani avevano espresso la loro inesorabile intolleranza verso tutto ciò che non era cristiano, conducendo pogrom contro gli ebrei che consideravano la personificazione dell'Anticristo e imponendo tortura, esilio e distruzione a coloro che rifiutavano di convertirsi al messaggio evangelico. Anche questi sforzi sembravano essere falliti. Centinaia di migliaia di ebrei che praticavano apertamente la loro religione continuavano a vivere in Europa, e coloro che si erano convertiti erano sospettati di essere agenti e spie del demonio che tentavano perfidamente di farsi largo nelle comunità cristiane.
Dominata da una cultura teocratica e da una visione del mondo che per più di mille anni era stata ossessionata dalla sfera sensuale e sessuale e aveva dimostrato la sua ossessione nel solo modo concesso dai suoi ministri - con una intensa e violenta repressione sensuale e sessuale e con gli atti di «purificazione» - l'inclinazione religiosa dei cristiani del tempo era prossima al punto di massima tensione. Ai livelli più alti la Chiesa era corrotta, mentre il basso clero era scoraggiato e sempre più disilluso. Queste furono le condizioni che, ricevuto il giusto impulso, condussero a quello che antropologi e storici definiscono ribellione e rivolta «millenaria» o «movimenti di rivitalizzazione». Effettivamente, questo momento storico, visto in retrospettiva, fu il principio della Riforma, la vigilia di un'imponente rivoluzione. E, quando finalmente la rivoluzione esplose, i cattolici avrebbero ucciso i protestanti e i protestanti avrebbero ucciso i cattolici, con lo stesso zelo e la stessa ferocia che i loro comuni antenati cristiani avevano riservato a ebrei e musulmani. « Non lasciamoli vivere oltre, quei malfattori che ci allontanano da Dio», avrebbe gridato ben presto ai suoi seguaci il protestante radicale Thomas Muntzer. «Perché un uomo senza Dio - si riferiva ai cattolici - non ha diritto di vivere se intralcia il divino [...] Usiamo la spada per sterminarli [...] Se resistono, lasciate che siano massacrati senza pietà». E questo fu proprio ciò che accadde: i cattolici furono davvero massacrati senza pietà. La Chiesa, naturalmente, era più che ansiosa di ricambiare, nelle azioni e nelle parole. Così, per esempio, nella Francia del XVI secolo la vendetta dei cattolici contro i calvinisti provocò la morte di migliaia di persone. I bambini furono pugnalati a morte, alle donne furono tagliate le mani per rubare i braccialetti d'oro che indossavano, gli editori di opere «eretiche» furono bruciati sui falò dei loro libri. Il trattamento riservato a Gaspard de Coligny, guida protestante, non fu eccezionale: dopo averlo ucciso, la folla dei cattolici ne mutilò il corpo, «amputandogli la testa, le mani e i genitali, e poi ne trascinò il corpo per le strade e lo gettò nel fiume [...] Ma poi, pensando che non fosse degno di divenire cibo per i pesci, lo tirarono fuori [...] e trasportarono ciò che era rimasto fino al patibolo di Mont-faucon, "affinché divenisse cibo per vermi e corvi" ». Questa rabbia furiosa continuò anche nel XVII secolo, per esempio, nel saccheggio della città protestante di Magdeburg, durante il quale furono uccisi almeno trentamila protestanti. «In una sola chiesa furono trovate cinquantatré donne cui era stata tagliata la testa», riferì Friedrich Schiller, e ovunque i bambini furono pugnalati e gettati nel fuoco. «La scena che si apriva davanti ai nostri occhi era orribile - scrisse Schiller - i vivi erano coperti dai cadaveri, i bambini girovagavano tra i morti e piangevano in modo straziante chiamando i genitori; e i neonati succhiavano ancora il seno delle madri senza vita». E lo scontro era fra cristiani e cristiani, europei contro europei, «civilizzati» contro «civilizzati». Esistevano, tutti gli europei lo sapevano, razze «selvagge», lascive, incivili e lontane da Cristo, che vivevano in una terra ancora inesplorata, ai margini estremi della terra. Alcuni erano bestie, altri esseri umani e altri ancora erano sospesi tra una categoria e l'altra. Un giorno - forse un giorno non lontano - si sarebbero potuti imbattere in loro e allora sarebbe stato necessario prendere decisioni importanti. Se avessero avuto un'anima, se fossero stati capaci di comprendere e accettare la santa fede, avrebbero compiuto ogni sforzo possibile per convertirli, come era stato fatto ogni sforzo per convertire ebrei e musulmani. Se si fossero dimostrati incapaci di convertirsi, se fossero stati, cioè, figli del demonio, sarebbero stati uccisi. Era questo che Dio voleva.
Qui, per esempio, è riportato ciò che il pio domenicano Tomàs Ortiz scrisse al Concilio delle Indie all'inizio del XVI secolo riguardo ai popoli del Nuovo Mondo: Sul continente mangiano carne umana. Sono più dediti alla sodomia di ogni altra nazione al mondo. Non esiste giustizia tra loro. Sono nudi. Non provano alcun rispetto per l'amore e la verginità. Sono stupidi e sciocchi. Non hanno rispetto per la verità a meno che non vada a loro vantaggio. Sono instabili. Non sanno che cosa sia la lungimiranza. Sono ingrati e incostanti [...] Sono brutali. Si divertono a esagerare i loro difetti. Non esiste ubbidienza tra loro e nemmeno il rispetto da parte del giovane verso l'anziano, né del figlio verso il padre. Sono incapaci di apprendere. Le punizioni non hanno alcun effetto su di loro [...] Mangiano pulci, ragni e vermi crudi ogni volta che li trovano. Non esercitano alcuna arte o mestiere. Quando insegnammo loro i misteri della nostra religione, dissero che queste cose potevano andare bene per i castigliani, ma non per loro, e non desideravano cambiare le loro abitudini [...] Posso senz'altro affermare che Dio non ha mai creato una razza tanto viziosa e priva di gentilezza e cultura [...] Gli indiani sono più stupidi degli asini e si rifiutano di migliorare.
L'unica affermazione vera in questa litania di odio cristiano verso gli indiani è che gli indiani erano comprensibilmente riluttanti ad abbandonare la fede dei loro antenati e ad adottare quella del popolo straniero che era venuto a ucciderli, torturarli e renderli schiavi. Inoltre, molti di quelli che sembravano essersi convertiti si rivelarono apostati o, in primo luogo, falsi convertiti. Naturalmente, gli spagnoli possedevano la risposta giusta a problemi del genere: l'inquisizione. Così istituirono tribunali dell'inquisizione tra i nativi, per trovare e punire gli indiani che avevano fornito una falsa testimonianza o che erano ritornati a essere «idolatri» dopo aver detto di aver visto la luce. Così i frati si unirono ai conquistatori e cominciarono anche loro a bruciare sul rogo gli indiani. Se le affermazioni di Ortiz e altri, riguardo alle abitudini degli indiani, erano invenzioni, non mancavano però di uno scopo preciso. Elencando quelle che gli spagnoli consideravano le disgustose abitudini alimentari degli indiani (tra cui il cannibalismo e il consumo di insetti e altri alimenti non reputati adatti alla dieta umana), la presunta nudità dei nativi e la mancanza di agricoltura, la loro devianza sessuale e la lascivia, la brutale ignoranza, la mancanza di armi e l'incapacità di lavorare il ferro e l'irrimediabile idolatria, i conquistatori europei disumanizzavano deliberatamente e sistematicamente i popoli che stavano sterminando. Infatti, le specifiche categorie di comportamento scelte per queste accuse erano derivate apertamente dalle idee della tradizione cristiana e dell'antica cultura greca e romana riguardanti le caratteristiche di creature fondamentalmente non razionali e malvagie, dalla razza di bronzo descritta da Esiodo ai selvaggi e alle streghe dell'epoca medioevale. Così, ancora una volta, l'asservimento e i massacri terroristici compiuti dagli spagnoli contro gli indiani furono giustificati mettendo in evidenza la presunta ignoranza dei nativi o il loro comportamento deprecabile e animalesco, come quando, per esempio, le truppe di Balboa uccisero centinaia di nativi mutilandoli fino alla morte e dando la loro carne in pasto ai cani perché Balboa aveva affermato che alcuni dei loro capi erano dediti al «nefando e osceno peccato [di] sodomia».
Tutto ciò, naturalmente, dalla miracolosa scoperta delle Indie alla distruzione dei pagani inca, faceva parte del grande piano di Dio. Infatti, lo stesso prete che aveva persuaso Las Casas a divenire frate, padre Domingo de Betanzos, nei primi anni della conquista, aveva diffuso con autorevolezza una profezia secondo cui «gli indiani erano bestie e Dio aveva condannato l'intera razza a morire a causa degli orribili peccati commessi nel loro paganesimo». Benché Betanzos abbia ripudiato la profezia poco prima di morire mentre si trovava in pellegrinaggio in Terra Santa - alcuni decenni dopo averla pronunciata e, a quanto pare, spinto dai suoi più gentili fratelli domenicani - questa era ormai stata comunemente accettata da persone di ogni ceto, da laici e religiosi. Infatti, appena Betanzos morì, la profezia che egli aveva ripudiato fu rivista, stampata e nuovamente diffusa dallo scrittore domenicano Dàvila Padilla.
Dopo tutto, dovevano essere fornite alcune spiegazioni per l'apparente facilità con cui morivano gli indiani, a causa degli assalti delle malattie epidemiche europee (di cui, disse uno spagnolo, gli indiani «muoiono a mucchi, come cimici») o sotto i colpi delle lame delle spade spagnole. Dal momento che, per gli europei del tempo, questi eventi straordinari si verificavano per volontà divina, quale poteva essere il disegno di Dio se permetteva - o dirigeva - la distruzione di massa dei popoli nativi? I frati spagnoli non erano concordi sulla questione. Alcuni, in linea con padre Betanzos e Ortiz, sostenevano che gli indiani possedessero un passato così terribile di empietà - in particolare di indulgenza nei peccati della carne - che Dio li stava punendo con lo sterminio, e gli spagnoli non erano altro che lo strumento della volontà divina. (Come notato in precedenza, queste idee non erano radicate solo nell'antico pensiero cristiano, facevano parte della tradizione classica dell'Occidente: ottocento anni prima della nascita del cristianesimo, per esempio, la saggezza greca aveva definito la carestia, la pestilenza e la sterilità - il peso schiacciante imposto ora ai nativi - il castigo giusto e inevitabile, voluto da Dio per quelle società che si comportavano «in modo immorale»). Altri, come il famoso monaco francescano e storico Geronimo de Mendieta, al contrario, sostenevano che le morti di massa degli indiani erano la punizione che Dio stava infliggendo agli spagnoli per l'orribile trattamento riservato ai nativi. A causa della malvagità con la quale schiacciavano i nativi, concludeva Mendieta, Dio ha deciso di privare gli spagnoli della riserva apparentemente inesauribile di schiavi e forza lavoro. «Quando gli indiani saranno stati sterminati», scrisse dal Messico alla fine del XVI secolo nella sua Historia eclesiastica indiana, «non so cosa accadrà in questa terra, so solo che gli spagnoli inizieranno a derubarsi e a uccidersi a vicenda». Continuava: «E riguardo alle pestilenze che vediamo tra [gli indiani], non posso fare a meno di sentire che Dio ci sta dicendo: "Voi [gli spagnoli] vi state affrettando a sterminare questa razza. Posso aiutarvi a spazzarli via più rapidamente. Vi troverete presto senza di loro come desiderate tanto ardentemente" ».
Insomma, che Dio stesse punendo gli indiani per i loro peccati o gli spagnoli per le loro crudeltà, entrambe le parti coinvolte nel dibattito ecclesiastico concordavano che Dio desiderava che gli indiani morissero. I conquistatori erano ben felici di rendere omaggio a Dio e di essere i suoi santi strumenti. Se il sacrificio di queste creature - che gli uomini più saggi della Spagna, dopo tutto, avevano da tempo definito semplici bestie e schiavi di natura - si fosse rivelato infine un castigo ordinato da Dio per punire i conquistatori della loro brutalità, se ne sarebbero preoccupati in futuro, mentre contavano l'oro e l'argento accumulati.
Alla fine del XVI secolo i metalli preziosi, in particolare l'argento, costituivano più del 95 per cento di tutte le merci esportate dai territori americani sotto il dominio spagnolo verso l'Europa. Quasi la stessa percentuale di indigeni era stata distrutta durante il processo di conquista di quelle ricchezze. Con la sua fame insaziabile, la Spagna stava distruggendo tutto ciò che aveva più valore nei territori del Nuovo Mondo che aveva conquistato: la favolosa abbondanza di popoli, culture e metalli preziosi che avevano eccitato l'immaginazione europea nel periodo di entusiasmo che aveva seguito il ritorno di Colombo dal suo primo viaggio. Nel 1492, il numero di indigeni nelle isole caribiche, in Mesoamerica e in Sud America era quasi uguale a quello di tutta l'Europa del tempo, compresa la Russia. Poco più di un secolo dopo, raggiungeva a malapena il numero degli abitanti dell'Inghilterra. Culture antiche, raffinate e ricche erano state completamente cancellate dalla faccia della terra. E nel 1650 la quantità di argento proveniente dalle Americhe era scesa a meno della metà di ciò che era appena cinquant’anni prima, mentre la produzione d'oro era precipitata sotto il 10 per cento. Per un secolo e più, la presenza spagnola nelle Americhe era stata paragonabile a quella di un'orda di fameliche locuste che non si lasciano alle spalle nient'altro che terre desolate.
Per quanto possano essere diversi i dettagli specifici dei singoli casi, in tutte le Americhe oggi i popoli indigeni continuano a trovarsi di fronte una forma o l'altra dello stesso dilemma di cinque secoli fa. All'alba del XV secolo, i preti e i conquistatori spagnoli presentavano un'alternativa agli indiani che incontravano: rinunciare alla religione, alla cultura, alla terra e all'indipendenza, giurando fedeltà come «vassalli» alla Chiesa cattolica e alla Corona spagnola, o subire «tutti i mali e le offese» che gli invasori europei avrebbero loro inflitto. Era chiamato requerìmìento. La difficile situazione che i popoli nativi affrontano oggi non è altro che un moderno requerìmìento: abbandonare tutte le speranze di continua integrità culturale e cessare effettivamente d'esistere come popoli autonomi, o tollerare come popoli autonomi il tormento e le privazioni che abbiamo scelto come vostro destino.
Dal punto di vista ideologico l'effetto fu quello di dispensare individui, partiti e nazioni da ogni responsabilità morale per ciò che la storia aveva decretato». In realtà la quasi totale distruzione dei popoli nativi dell'emisfero occidentale non fu né involontaria né inevitabile. |
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